Il problema della responsabilità oggettiva
La questione della responsabilità oggettiva è stata il problema teorico più impegnativo della responsabilità civile negli ordinamenti dell’area occidentale a civiltà industriale evoluta.
L’esplosione della civiltà delle macchine è venuta gradualmente mettendo in evidenza l’insufficienza dell’idea di un individuo che sia l’unico centro di imputazione della propria vicenda esistenziale.
Se il prodotto non è più ascrivibile in termini individuali al singolo, non sarà corretto imputare a quest’ultimo l’eventuale costo di un danno che pure trovi in esso il suo autore sul piano naturalistico: il marchio che identifica il prodotto attribuendone all’impresa la paternità indica in pari tempo il centro di imputazione dei costi di cui il prodotto medesimo è il risultato.
L’analisi comparativa delle vicende degli ordinamenti mette in luce la comune difficoltà di superare l’esclusività del principio della colpa.
L’emersione culturale della responsabilità oggettiva
La dottrina su questo terreno aveva reagito con prontezza al mutamento della realtà socioeconomica.
Nella letteratura tedesca, in particolare, un approccio radicalmente nuovo alla responsabilità civile era venuto significativamente a coincidere con la crisi della Pandettistica.
Uno dei cardini sui quali quella grande stagione della scienza privatistica costruì il suo sistema è dato dal principio nullum crimen sine culpa.
L’affermazione più convinta e storicamente più significativa di esso appartiene a Rudolf von Jhering.
Karl Lorenz Binding, nell’argomentare la differenza tra responsabilità civile e responsabilità penale, anche attraverso l’analisi della diversità tra pena e risarcimento, afferma a proposito di quest’ultimo che il problema giuridico non consiste tanto nel determinare chi sia tenuto a risarcire un danno patrimoniale subìto da altri, ma piuttosto nel determinare coloro sui quali viene a cadere in via definitiva il danno.
Viene così infranta l’identificazione responsabilità civile – fatto illecito.
Adolf Merkel afferma che ciascuno deve sopportare i costi necessari a far valere i propri interessi, dopo aver messo in luce che non tutte le attività che si caratterizzano per pericolosità o dannosità possono essere proibite dal diritto, perché il più delle volte esse hanno per la società un valore che ne supera i risvolti negativi {Juristische Encyclopädie, Berlin-Leipzig 1885; nell’opera di questo autore è significativa una singolare assonanza col caso pilota della moderna responsabilità oggettiva in common law: in Rylands v. Fletcher, 1868, fu affermata la responsabilità del proprietario la cui acqua raccolta in un grosso serbatoio aveva invaso il fondo altrui, sulla base di un non natural use of land; analogamente Merkel afferma il principio secondo cui il proprietario di un fondo risponde per i danni inusuali provocati ai vicini dal modo in cui la proprietà viene esercitata, anche quando tale esercizio non sia antigiuridico}.
L’assoluta modernità di tale visione è dimostrata dalla ripresa che ne opera talora la dottrina contemporanea (ad es. Pietro Trimarchi) e dalla distinzione tra prevenzione generale e prevenzione specifica.
Victor Mataja (1857-1934) afferma che nessun ordinamento può eliminare il danno verificatosi, poiché il diritto è impotente di fronte ad esso come nei confronti di un fatto ormai concluso.
Sembra naturale l’accostamento a Guido Calabresi, specialmente quando si aggiunge che allora la legislazione non può che perseguire due obiettivi: operare per quanto possibile sul terreno della prevenzione e far ricadere il danno che ciò malgrado si sia verificato su coloro che appaiono i più idonei a sopportarne il peso secondo le esigenze della giustizia e dell’assetto economico degli interessi.
Al vaglio di questi criteri viene sottoposta la responsabilità per colpa, il cui rovescio è rappresentato dal principio casum sentit dominus (il proprietario subisce l’evento dannoso); e la conclusione è esattamente opposta a quella cui perviene Oliver Wendell Holmes.
In applicazione dell’idea tipicamente liberale secondo cui l’intervento dello Stato è un danno se non si dimostra che è un bene, Holmes afferma che una volta verificatosi il danno non si deve mettere in moto l’ingombrante e costoso apparato giudiziario statale, a meno che non ci si debba attendere un sicuro vantaggio dalla modifica dello status quo.
Indebitamente però Holmes identifica nel ricorrere della colpa l’unica ipotesi idonea a giustificare tale intervento in funzione di uno spostamento del danno da chi lo ha subìto a chi lo ha provocato.
Tutt’altra è la risposta di Victor Mataja: la colpa non assicura il conseguimento dei risultati che la responsabilità civile deve prefiggersi: essa è inadeguata sia sul terreno della prevenzione che su quello della reazione al danno verificatosi.
Da un lato infatti la colpa come unico limite al principio casum sentit dominus fa sì che in molti casi nei quali in applicazione del principio stesso il danno rimane lì dove è caduto e grava perciò sul titolare del bene giuridico leso, si deve constatare che altri dal titolare sarebbe stato meglio in grado di evitarlo; dall’altro, il considerare caso fortuito ogni evento dannoso non imputabile a colpa non realizza di per sé la giustizia ed è contrario al principio economico secondo il quale il danno diventa tanto meno avvertibile socialmente quanto più viene distribuito.
Giacomo Venezian [1871-1915] ha messo a punto una teoria della responsabilità civile che esclude radicalmente la colpa e fonda la responsabilità sul puro nesso causale.
Il Venezian intende l’illecito civile, analogamente al reato, come species di un unico genus: il torto.
L’impostazione del Venezian non ha avuto fortuna perché ritenuta, secondo le parole di Lodovico Barassi (1873-1961), “reazione brutale” al torto.
In ogni caso il criterio della prevalenza causale è vicino alle coeve teorie di responsabilità oggettiva formulate in termini di pericolo, di rischio o di interesse; inoltre questa impostazione va considerata come una delle ricorrenti tentazioni di ridurre il discorso sulla responsabilità oggettiva nei termini della pura causalità: più recentemente l’americano Richard Epstein ha perseguito intenti di purificazione del linguaggio della responsabilità riducendo quest’ultima a mera funzione della causalità.
Secondo Nicola Coviello [1867-1916] la responsabilità oggettiva non presuppone l’illiceità in quanto il punto di partenza è, piuttosto, proprio la liceità, come già aveva messo in luce Adolf Merkel.
Il torto è in sé sinonimo di antigiuridicità e si comprende perché, ridotto entro tale schema il discorso sulla responsabilità civile, ogni danno risarcibile presupponga l’antigiuridicità della condotta alla stessa stregua che la pena presuppone il reato come condotta antigiuridica.
Ma il movimento moderno della responsabilità civile nasce proprio all’insegna della distanza da guadagnare tra danno civile e reato; e se, come lo stesso Giacomo Venezian propugna, non è più il soggetto agente a dover rispondere, ma il suo patrimonio, non ha più senso invocare come presupposto del risarcimento l’antigiuridicità, la quale è categoria di qualificazione dell’azione.
Colpa ed antigiuridicità sono termini correlativi che simul stant, simul cadent.
Come già precisò Joseph Unger (1828-1913), il principio “nessuna responsabilità senza colpa” significa nessun illecito senza colpa: con il che la colpa risulta essere correlativo di antigiuridicità.
Altra è la questione se possa darsi responsabilità senza colpa e dunque senza antigiuridicità.
Nel diritto positivo la responsabilità senza colpa non sembra essere andata molto oltre rispetto alle ipotesi messe in luce dalla letteratura del secolo scorso.
Vi sono tuttavia due precise linee di tendenza:
a. la prima è data dall’innovazione del dato positivo in termini di esplicita disciplina di fattispecie portanti responsabilità senza colpa e viene a coincidere nelle linee essenziali col progresso tecnologico;
b. la seconda è la fedeltà formale al dato normativo tradizionale ed al principio della colpa unita alla consapevolezza della inidoneità di essa a misurare le ipotesi di danno bruto.
{È figlio di questo l’atteggiamento di ravvisare una colpa anche quando colpa non c’è, secondo l’espressione di Nicola Coviello}.