Il divieto di revoca e di modifica dell’atto amministrativo da parte del giudice ordinario (art. 4 della l. n. 2248 del 1865) è stato interpretato come impossibilità per il giudice di assumere decisioni che potessero avere un’incidenza sull’attività amministrativa:
- la nozione di atto amministrativo, costituendo la linea discriminante per i poteri del giudice ordinario nei confronti dell’amministrazione, deve essere precisata:
- una prima interpretazione la identifica con qualsiasi atto amministrativo posto in essere nell’interesse pubblico. Accettando questa interpretazione, si deve concludere che oggetto di protezione non sono soltanto i provvedimenti amministrativi, ma anche i comportamenti materiale dell’amministrazione indirizzati a soddisfare un interesse pubblico (provvedimenti amministrativi taciti). Questa interpretazione comporta una netta riduzione dei poteri del giudice ordinario, in funzione dell’esigenza generica di garantire l’interesse pubblico;
- con l’entrata in vigore della Costituzione, tale interpretazione ha perso qualsiasi giustificazione. Oggetto di protezione non può essere qualsiasi modalità con cui l’amministrazione persegua l’interesse pubblico, ma solo ciò che in base alla legge è soggetto ad un regime differenziato (principio di legalità). Se l’amministrazione non esercita un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice;
- l’analisi della tipologie di sentenze rappresenta una questione particolarmente rilevante ai fini dell’individuazione dei limiti interni alla giurisdizione civile. Il dibattito trae origine da un’interpretazione estensiva dei limiti posti dall’art. 4, sostenendosi che nelle vertenze su rapporti di diritto privato esso vieterebbe al giudice ordinario non solo di incidere direttamente su atti amministrativi, ma anche di emettere sentenze per la cui esecuzione l’amministrazione fosse tenuta a svolgere un’attività amministrativa. In questa logica le sentenze compatibili con l’art. 4 sembravano essere le sentenze di mero accertamento, che non implicavano l’esercizio di poteri dispositivi da parte del giudice che potessero incidere su atti dell’amministrazione, e le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, ammesse perché altrimenti sarebbe stata esclusa qualsiasi garanzia per il cittadino.
Il confronto di questa interpretazione con i principi costituzionali, tuttavia, ha imposto di ricercare ben altri limiti per i poteri del giudice ordinario nei confronti dell’amministrazione: la garanzia della tutela giurisdizione dei diritti nei confronti dell’amministrazione, infatti, acquista in Costituzione il carattere della necessaria completezza (artt. 24 e 113 co. 1), da cui la necessità di permettere al giudice di emettere quel tipo di sentenza che sia più idoneo ed adeguato per la garanzia del diritto fatto valere in giudizio. Alla luce del disposto costituzionale, quindi, non risulta ammissibile una preclusione per il giudice ordinario a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti dell’amministrazione. Esclusa la possibilità che la sentenza possa avere come contenuto l’intervento su un provvedimento amministrativo, per il resto il giudice può pronunciare qualsiasi tipo di sentenza nei confronti dell’amministrazione e può assumere ogni altra decisione prevista dalla legge, a patto che sia coerente con il diritto fatto valere in giudizio. Non importa se l’esecuzione della sentenza possa comportare l’esercizio di un’attività amministrativa per realizzare la prestazione imposta. Tale esercizio di attività rileva solo sul piano interno, come attività strumentale per l’adempimento della prestazione, e pertanto non comporta alcuna limitazione delle possibilità di tutela del cittadino.