Cominciamo con gli atti che sono esercizio di autonomia.
Abbiamo già detto che una delle caratteristiche di tutti gli enti pubblici, costituenti la Pubblica Amministrazione, è che essi possono dettare delle norme giuridiche materiali allo scopo di disciplinare la propria struttura e la propria attività. Tra i provvedimenti di amministrazione a contenuto materialmente normativo i più importanti sono certamente i regolamenti à essi infatti contengono delle norme di condotta ipotetiche o generali ed astratte.
La loro efficacia formale e sostanziale è diversa da quella delle leggi. In particolare sotto il profilo sostanziale i regolamenti modificano le posizioni giuridiche insieme dei destinatari e del loro autore soddisfacendo un interesse personale di quest’ultimo e non un mero interesse obiettivo, com’è delle leggi. Da ciò dipende infatti l’ammissibilità di un’impugnativa diretta dei regolamenti che siano contrari alle leggi, riconosciuta dalla giurisprudenza; mentre proprio l’ipoteticità del loro contenuto fa si che quell’impugnativa sia ammissibile solo quando essi ledono immediatamente la sfera giuridica di un cittadino singolarmente individuato..
La loro interpretazione segue le regole proprie dell’interpretazione delle leggi.
Nel nostro ordinamento giuridico, in cui la tripartizione dei poteri è stata una reazione all’accentramento, che vigeva nello stato assoluto, di tutto il potere del monarca, la categoria dei regolamenti statali ha un’origine storica ben definita e quindi facile ne è la delimitazione nei confronti delle leggi formali. Sono infatti regolamenti quelle leggi materiali che il sovrano ha continuato a dettare in forza del proprio potere di sovranità (regolamenti indipendenti o originari) o in quanto capo del potere esecutivo (regolamenti esecutivi o delegati).
Da noi il problema del fondamento giuridico del potere regolamentare dello stato è stato controverso perché quel potere poteva sembrare una deviazione dal principio della tripartizione dei poteri. Per alcuni il fondamento risiedeva in una capacità generale, spettante al potere esecutivo, di emanare norme giuridiche in tutte le materie non regolate da leggi formali. Ma questa teoria non era accettabile in quanto l’ordinamento non attribuiva una tale capacità di normazione sostanziale al potere esecutivo.
Più esatta era la tesi di chi ritrovava il fondamento del potere regolamentare in un’estensione della capacità del potere esecutivo di precisare il modo di applicazione delle leggi:
- sia nel senso che esso poteva emanare atti più generali di quelli singoli di esecuzione concreta;
- sia nel senso che per regolare l’esecuzione delle leggi esso doveva poter regolare la propria attività diretta a quell’esecuzione.
Però questa giustificazione esprimeva soltanto il fondamento logico del potere regolamentare.
Più recentemente il nostro ordinamento è stato arricchito da una norma sulla disciplina dell’attività di governo – legge 23 agosto 1988 n 400 – in base alla quale sono stati minuziosamente stabiliti i casi di esercizio del potere regolamentare, prevedendosi che con esso si possa disciplinare:
- l’esecuzione delle leggi e dei decreti legislativi;
- l’attuazione e l’integrazione delle leggi e dei decreti legislativi;
- l’organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni, sempre nell’ambito di disposizioni legislative
- e infine tutti gli spazi in cui manchino norme specifiche purchè non si tratti di materie comunque riservate alla legge.
La norma citata è confermata e precisata da un’ancora più recente legge ossia la legge 24 dicembre 1993 n 537 precisamente all’art. 1.
Si è statuito che possono essere emanati regolamenti quando le materie non siano riservate alla legge, ma si è aggiunto che quando la riserva di legge non sia assoluta e cioè prevista dalla costituzione, le leggi possano autorizzare l’esercizio della potestà regolamentare dando norme generali di indirizzo e disponendo esse l’abrogazione delle norme vigenti che vengano sostituite dai regolamenti.
Per effetto di questa previsione si è attuata la così chiamata delegificazione spostando il peso della disciplina normativa dal parlamento al governo.
Il riordino dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione con la legge 537 prevede che il governo sia titolare di potestà regolamentare in una serie di materie che incidono non superficialmente sulla struttura amministrativa.
Mentre alcune di queste materie attengono al classico campo regolamentare, per altre sorge il dubbio della costituzionalità dell’esercizio di un semplice potere regolamentare: così ad esempio quando si ammette che il regolamento possa sostituire una previsione normativa come quella che prevede il trasferimento di funzioni esercitate da ministeri o anche da altri enti pubblici.
In effetti si è utilizzato il potere regolamentare come se esso fosse esercizio di legislazione delegata e pur dovendosi ammettere l’opportunità di questo disegno di semplificazione normativa, non si può osservare come la legge 537 sia in contrasto non solo con i principi ma perfino con le previsione della legge 400.
Viene da chiedersi quale sia il fondamento di un siffatto potere regolamentare e la risposta non può essere se non che occorre sempre rifarsi alla costituzione e che semmai sarà l’illegittimità costituzionale della singola legge a provocare l’illegittimità del regolamento.
Siamo in una situazione confusa probabilmente perché è mancato un disegno generale quale quello che avrebbe dovuto incentrare i poteri regolamentari del governo non tanto su ipotersi particolari quanto su una previsione normativa generale data o da una legge generale sull’attività amministrativa o da una legge di programmazione come potrebbe essere una legge generale di programma pluriennale non necessariamente collegata con gli interventi annuali sui problemi della finanza pubblica.
Quanto si è detto fin qui riguarda il potere regolamentare attribuito all’amministrazione statale per il quale ben si attaglia la definizione di potere di autonomia se gli si attribuisce il significato fatto proprio dalla parola di potere di dettare norme a se stessi.
Ma se dall’amministrazione statale di passi al settore coperto dagli enti pubblici, territoriali o funzionali, mentre rimane il campo sopradetto, un altro ne va aggiunto. Di ciò si è già parlato ampiamente in precedenza quando si sono definite le caratteristiche qualificanti di questi enti. Ora si deve affrontare l’argomento da un diverso punto di vista e ciò è suggerito proprio dal tema del fondamento del potere regolamentare.
Se la nostra storia fosse stata diversa e in principio vi fossero state le comunità locali dalla cui unione fosse sorto lo stato, la stessa loro personalità giuridica avrebbe un valore di autogenesi. Si sarebbe trattato di un sistema fondato sulla generazione spontanea di enti comunitari i quali avrebbero dato vita all’ordinamento dell’ente superiore. E questo è il caso degli USA dove lo stato federale è limitato dalle attribuzioni ritenute dagli stati federati.
Sistema completamente diverso è il nostro. È vero che risalendo nei secoli passati prima del sorgere dello stato assoluto, esistevano le comunità locali dotate di propri poteri ma dopo l’avvento del tipo di stato assoluto conosciuto in Francia, è quest’ultimo che si è posto come fonte ed origine di tutte le strutture esistenti al suo interno. Perciò il rapporto tra stato ed enti minori è un rapporto di eterogenesi nel senso che questi ultimi hanno quel tanto di potere (capacità) che è loro riconosciuto dall’ordinamento dello stato.
Qui si pone però un problema più sottile e cioè se si tratti di riconoscimento di capacità o di sua attribuzione. A differenza di quanto si poteva e si doveva pensare nell’ambito dell’ordinamento statuario, la solenne affermazione della costituzione che “la repubblica si riparte in regioni, province e comuni” e che “le regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri” e che “comuni e province sono enti autonomi nell’ambito dei principi fissati da leggi generali della repubblica che ne determinano le funzioni” consente di riproporre il problema sotto il profilo dell’alternativa tra eterogenesi e autogenesi.
Allo stato attuale delle conoscenza sembra che si possa escludere un collegamento attributivo di capacità dallo stato agli enti minori.
Il fatto che la costituzione parti di repubblica come ordinamento di riferimenti sembra consentire di pensare che dall’ordinamento complessivo venga il riconoscimento e non l’attribuzione dell’autonomia spettante alle comunità locali.
In sintesi l’autonomia come capacità di darsi propri ordinamenti va collocata nell’ambito dell’ordinamento complessivo di cui la costituzione, i principi e le leggi generali rappresentano l’unica fonte.
Se l’autonomia come attribuzione di potestà regolamentare per l’amministrazione statale discende direttamente dalle leggi dello stato, l’autonomia degli enti locali è semplicemente collegato nell’ambito dell’ordinamento complessivo che ne determina i limiti e le funzioni. In questo senso va letta la norma della legge comunale e provinciale secondo cui “le comunità locali ordinate in comuni e province sono autonome”. Dal che deriva che si può ritenere di ciò confermativa l’ulteriore norma secondo cui “i comuni e le province adottano il proprio statuto” e che “nel rispetto della legge e dello statuto il comune e la provincia adottano regolamenti per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni, degli organismi di partecipazione e per il funzionamento degli organi e degli uffici nonché per l’esercizio delle funzioni”.