Le amministrazioni pubbliche (come quelle private) funzionano con l’ apporto di pochi amministratori e molti lavoratori dipendenti; di conseguenza, assume particolare importanza il rapporto che si insatura tra ciascuna pubblica amministrazione ed il personale dipendente.
Al riguardo, va detto che la nostra legislazione si è orientata verso un impiego pubblico con un assetto distinto da quello del rapporto di lavoro privato: è in questa prospettiva che, nel 1957, è stato approvato uno statuto degli impiegati civili dello Stato (D.P.R. 3/57) del tutto peculiare rispetto a quello che, nel 1970, sarebbe stato lo statuto dei lavoratori del settore privato (L. 300/70).
In realtà, il processo di pubblicizzazione può dirsi concluso già nel 1923, quando, con r.d. 2840/23, fu attribuita al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, una competenza esclusiva in materia di pubblico impiego (l’ impiego pubblico finì, così, per essere trattato con le categorie proprie del diritto e del processo amministrativo). In tal modo, il rapporto di pubblico impiego non veniva costituito da un contratto (come il rapporto di lavoro privato), ma da un atto unilaterale di nomina (quindi, da un provvedimento amministrativo), rispetto al quale l’ accettazione del privato fungeva da mera condizione di efficacia.
È necessario sottolineare, tra l’ altro, che secondo parte della dottrina, la natura pubblicistica del rapporto di pubblico impiego sarebbe stata rafforzata dalla Costituzione: quest’ ultima, infatti, disponendo una riserva di legge relativa in materia di organizzazione dei pubblici uffici, richiederebbe, per l’ impiego pubblico, una disciplina per legge o per regolamento. Tale assunto, però, è stato criticato da altra parte della dottrina sulla base della distinzione tra organizzazione (in astratto) dei pubblici uffici e (concreta) provvista degli stessi; e, più in generale, sulla base della distinzione tra organizzazione degli uffici ed organizzazione del lavoro (sicché solo l’ organizzazione degli uffici formerebbe oggetto di riserva di legge, mentre l’ organizzazione del lavoro non sarebbe diversa dall’ organizzazione del lavoro privato e, al pari di questa, potrebbe essere sottoposta a disciplina contrattuale).
L’ assetto vigente, quale risulta dal d.lgs. 29/93 e dalle successive modifiche (poi confluite nel d.lgs. 165/01) è, invece, il seguente: ciascuna P.A., in virtù dei princìpi generali fissati dalla legge, adotta regolamenti ed atti generali con i quali vengono fissate le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, vengono individuati gli uffici con maggiore rilevanza, stabilite le relative modalità di copertura e determinate le dotazioni organiche complessive (ossia il fabbisogno di personale). Nel quadro di tali atti (che hanno natura di provvedimenti amministrativi), la gestione dei rapporti di lavoro viene fatta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (vale a dire, con un atto di diritto privato): così, ad es., è un provvedimento amministrativo quello con il quale un ente determina il proprio organico; è, invece, un atto di diritto privato (contratto) quello con il quale un lavoratore è chiamato a ricoprire un posto o quello con il quale un lavoratore è trasferito d’ ufficio o destinato ad altre mansioni.
In dipendenza della privatizzazione del rapporto di impiego cambia, ovviamente, anche il sistema delle fonti: diritti e doveri delle parti non sono più stabiliti da leggi e regolamenti amministrativi, ma trovano la loro fonte nel libro del lavoro del codice civile, nelle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’ impresa e nei contratti collettivi di lavoro. Questi ultimi, in particolare, sono stipulati, per singoli comparti (ad es., ministeri, regioni, enti locali, etc.), dalle confederazioni sindacali e dall’ ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A.); la stipulazione, però, deve essere preceduta dal parere favorevole del Comitato del settore interessato e dall’ attestazione della Corte dei Conti.
Detto ciò, è necessario comunque sottolineare che l’ assimilazione dell’ impiego presso enti pubblici all’ impiego privato conosce dei limiti. Infatti, occorre osservare, innanzitutto, che il reclutamento del personale avviene sulla base di piante organiche approvate, nell’ amministrazione dello Stato, con regolamenti deliberati dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente. Più precisamente, la pianta organica serve a commisurare la quantità di personale al fabbisogno: ciò significa, quindi, che l’ assunzione di dipendenti al di fuori dell’ organico è nulla, con conseguente applicazione dell’ art. 2126 c.c. (prestazione di fatto con violazione di legge).
In secondo luogo, il personale viene assunto con procedure selettive, volte ad accertare la professionalità richiesta e tali da garantire l’ accesso dall’ esterno; come si può notare, viene qui in rilievo il principio del pubblico concorso (principio che trova applicazione sia per l’ accesso alle qualifiche iniziali, che per l’ inquadramento nelle qualifiche superiori).
Una terza rilevante differenza riguarda, poi, la disciplina delle mansioni superiori: occorre evidenziare, infatti, che il lavoratore privato assegnato a mansioni superiori a quelle della qualifica ha diritto al mantenimento corrispondente e l’ assegnazione stessa diventa definitiva dopo che siano trascorsi 3 mesi (a meno che la stessa non sia disposta per sostituire un lavoratore assente). Il d.lgs. 165/01 stabilisce, invece, un limite temporale all’ assegnazione del dipendente a mansioni superiori (6 mesi) e individua i presupposti in presenza dei quali l’ operazione è ammessa (vacanza di un posto in organico o sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto); il lavoratore adibito a mansioni superiori ha diritto al trattamento economico corrispondente, ma non all’ inquadramento nella qualifica superiore (e ciò perché il principio del pubblico concorso verrebbe eluso se il dipendente potesse accedere alla qualifica superiore in conseguenza del solo esercizio di fatto delle mansioni corrispondenti).
In ogni caso, è bene precisare che, in determinati settori, viene fatto salvo l’ impiego pubblico tradizionale, retto da leggi e regolamenti; l’ impiego in esame concerne i militari, la polizia, i diplomatici, i magistrati, i professori e ricercatori universitari (in quest’ ambito, la giurisdizione rimane al giudice amministrativo).
Il d.lgs. 165/01 è stato, però, modificato in maniera incisiva dal d.lgs. 150/09: attraverso tale decreto, in particolare, la materia disciplinare, che era stata devoluta alla contrattazione collettiva (con palese beneficio per i dipendenti pubblici) viene restituita alla legge; vengono, poi, registrati termini e forme di provvedimento disciplinare, i rapporti con il procedimento penale, la rilevanza delle false attestazioni o certificazioni, i controlli sulle assenze e viene espressamente previsto il licenziamento disciplinare (come fattispecie diversa dal licenziamento per giusta causa o giustificato motivo). Viene, inoltre, rafforzato il controllo pubblico sul procedimento di formazione del contratto collettivo nazionale di lavoro [attraverso la previsione di poteri di indirizzo sull’ ARAN (da parte di comitati di settore) e poteri di indagine della Corte dei Conti].