Un tema particolarmente interessante e sul quale si discute da decenni in dottrina è quello della responsabilità dell’ amministrazione da atto lecito. In particolare, l’ interrogativo che gli studiosi si pongono è il seguente: se il privato subisce un danno dall’ operato della pubblica amministrazione è necessario che esso derivi da un atto illecito  (cioè, che si tratti di un danno ingiusto) affinché il danneggiato abbia titolo al risarcimento?

L’ argomento in esame è tra i più controversi nella dottrina civilistica (non solo italiana), una parte della quale tende comunque a sganciare il diritto al risarcimento dall’ illecito, desumendo l’ antigiuridicità da una valutazione comparativa degli interessi in gioco.

In realtà, se si osserva bene, il codice civile prevede specifiche ipotesi di indennità; indennità che consiste in un rimborso al quale un soggetto ha diritto qualora subisca un pregiudizio che un altro soggetto gli arrechi nell’ esercizio di un potere riconosciuto (e, quindi, per definizione, nello svolgimento di un’ attività lecita): si tratta delle ipotesi del proprietario di animali mansuefatti, il quale può inseguirli anche nel fondo altrui, salvo il diritto del proprietario del fondo a indennità per il danno (art. 925 c.c.) e del proprietario di sciami d’ api in identica situazione (art. 924 c.c.).

La questione si pone con particolare frequenza anche nei rapporti con la pubblica amministrazione, la quale, infatti, può arrecare pregiudizio ai privati non soltanto quando commette un illecito, ma anche quando esercita legittimamente i suoi poteri; ciò lo si può dedurre, ad es., dalla formulazione dell’ art. 42 Cost., il quale, infatti, stabilendo che la proprietà privata può, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, essere espropriata per motivi di interesse generale, ci dice, in realtà, che non è sufficiente il richiamo all’ interesse generale per autorizzare l’ appropriazione della proprietà privata da parte dei pubblici poteri, ma occorre anche un indennizzo, in assenza del quale l’ espropriazione sarebbe illecita.

A questo punto, però, sorge il problema di stabilire se l’ indennizzo debba essere equiparato al risarcimento o se debba essere inferiore allo stesso. Ora, nella formulazione originaria della legge fondamentale sull’ espropriazione (del 1865), l’ indennizzo equivaleva al risarcimento, perché veniva commisurato al valore di mercato dell’ immobile (cd. valore venale). La disciplina attuale, invece, ai fini dell’ indennizzo, ha distinto (almeno fino alla sent. 348/07 Corte cost.) i fondi agricoli (per i quali l’ espropriato riceve una somma pari al valore agricolo medio dei terreni nei quali sia praticato lo stesso tipo di coltura) dalle aree edificabili (per le quali l’ espropriato riceve un indennizzo pari a 1/3 del valore venale).

Questo regime, che la Consulta in un primo tempo aveva fatto salvo (giudicando non irrisorio il ristoro assicurato all’ espropriato), è stato travolto dalla citata sentenza 348/07, sulla base non più del solo art. 42 Cost., ma soprattutto in applicazione dell’ art. 1 del primo Protocollo CEDU, così come interpretato dalla Corte di Giustizia CE: secondo questo Giudice, infatti, la disposizione europea invocata, stabilendo che nessuno può essere privato della sua proprietà, se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai princìpi generali del diritto internazionale, impone un rimborso non inferiore al valore venale.

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