La nuova impostazione del rapporto tra amministrazione e cittadino non si manifesta soltanto nell’ambito dell’organizzazione; essa si manifesta anche nell’ambito dell’attività della PA.

La PA ha per caratteristica quella di identificare e soddisfare interessi generali ma questa sua caratteristica non significa che essa sia l’unica interprete di tali interessi, quanto meno tutte le volte in cui nella sua attività essa si trovi a definire anche interessi dei soggetti privati.

Quando l’amministrazione era l’unica ed indiscutibile autorità decidente ai destinatati dei suoi provvedimenti che si ritenessero da essi lesi non rimaneva se non la via dei ricorsi sia in sede amministrativa che in sede giurisdizionale.

I cittadini non avevano alcun accesso alla funzione amministrativa sicchè il provvedimento che li riguardava veniva adottato dai vari enti ed organi senza il loro concorso.

In quella situazione l’amministrazione procedeva in vista dell’adozione dell’atto finale sulla base di apporti esclusivamente interni. In altre parole l’esercizio della funzione intesa quale attuazione del potere spettava alla sola amministrazione. Essa decideva se esercitare o meno un potere; essa considerava la sussistenza della situazione su cui il potere andare ad incidere.

Si comprende perciò come la funzione, intesa come lo spazio della trasformazione del potere in un atto, ignorasse i destinatari dello stesso, ciò che aveva consentito una considerazione statica dell’insieme dei momenti che manifestano lo svolgersi della funzione; momenti e atti intermedi il cui insieme viene considerato come procedimento e cioè come manifestazione sensibile dell’esercizio della funzione mediante i singoli atti nei quali essa esplica.

In un primo tempo non si era nemmeno avvertito che l’insieme di questi atti costituissero uno svolgimento di manico del realizzarsi della funzione e si considerò il procedimento come un insieme di atti preparatori per l’adozione del provvedimento.

Una tale considerazione aveva potuto inserirsi nella distinzione tra provvedimenti e meri atti essendo l’insieme degli atti procedimentali un insieme di metti atti ma non avendo ancora identificato l’esistenza della funzione come momento di svolgimento del potere verso un provvedimento, si ritenne che i meri atti fossero esercizio di facoltà attribuite autonomamente come mezzi per l’attuazione del potere.

         È vero che le facoltà danno origine a meri atti inidonei a modificare le posizioni giuridiche ma è vero anche che queste singole facoltà sono contenute nella norma attributiva del potere o ad essa correlate e trovano il loro momento di esplicazione solo in quanto si ipotizzi l’esistenza della funzione e cioè un intervallo logico tra potere e atto ossia se si ipotizza l’esistenza della funzione.

        Non essendo ancora individuata l’esistenza della funzione intesa come elemento giuridico interposto tra potere e atto i singoli atti del procedimento venivano considerati atomisticamente come presupposti per l’esercizio del potere stesso.

Si trattava di una visione statica della realtà giuridica secondo cui prima andavano posti in essere gli atti sub – provvedimentali e poi si sarebbe verificata l’attuazione del potere in un atto.

         Occorre ora precisare la struttura del procedimento. Il procedimento è posto in essere dallo stesso soggetto che utilizza il potere per emanare il provvedimento. Così nell’ambito del soggetto Comune, le deliberazioni comunali si pongono come esito di un procedimento a cui hanno partecipato soltanto organi appartenenti  allo stesso  soggetto.

Dal momento dell’iniziativa a quello dell’elaborazione dei dati, a quello dell’audizione e del controllo dei vari uffici burocratici, a quello di organi consultivi interni, fino alla deliberazione (del consiglio, o della giunta o del sindaco) si è sempre in presenza di un procedimento unisoggettivo.

È questa la forma più semplice di svolgimenti della funzione poiché l’utilizzo del potere e delle facoltà che consentono di esprimere i vari atti interni è di spettanza di un solo soggetto.

         Vi sono dei casi di procedimenti nei quali intervengono soggetti diversi da quello cui compete il provvedimento finale. Si è in presenza di un procedimento complesso quando la stessa norma attributiva del potere pretende che altri soggetti intervengano nell’esercizio della funzione fornendo dei pareri o anche delle autorizzazioni. In una visione superficiale di questa situazione si potrebbe dire che in tutti questi casi i diversi soggetti che intervengono nel procedimento perseguono l’unico interesse presidiato dall’unico potere e dall’unica funzione.

Può essere che nel dare un’autorizzazione o nell’esprimere un parere il soggetto che è chiamato a collaborare all’esercizio della funzione  soddisfi interessi estranei a quelli perseguiti dal soggetto procedente. Infatti per quanto riguarda le attività consultive esse si distinguono in obbligatorie quando debbono essere necessariamente attivate e in vincolanti quando il soggetto agente è tenuto ad adeguarvisi.

 Il punto di vista degli interessi perseguiti è del tutto ininfluente alla qualificazione del tipo procedimentale, poiché esso dipende fondamentalmente dal fatto di essere manifestazione sensibile di una e una sola funzione inteso come uso di uno e un solo potere.

Quando su tale esercizio intervengono altri soggetti ciò non modifica la natura né della funzione né del procedimento che rimane unisoggettivo ma esso anziché essere semplice è un procedimento complesso.

Queste considerazioni consentono 2 conclusioni:

  1. il procedimento unisoggettivo è monocentrico e anche quando sono chiamati a parteciparvi soggetti terzi rispetto al suo autore esso non diventa mai policentrico
  2. non potendo essere policentrico esso costituisce inevitabilmente un fenomeno dinamico dal momento che gli apporti che vi confluiscono rappresentano momenti di avanzamento nell’esplicarsi della funzione.

Questo procedimento unisoggettivo è storicamente tipico di un’amministrazione considerata come unico soggetto legittimato all’individuazione dell’interesse o bene pubblico.

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