Proprio l’incidenza e la forza della partecipazione modificano anche il provvedimento finale.
Mentre nell’ambito di un’amministrazione autoritaria e di un procedimento unisoggettivo, la conclusione è un provvedimento unilaterale, nell’ambito di un procedimento plurisoggettivo l’atto finale non può più essere esclusivamente opera dell’amministrazione ma in esso confluiscono inevitabilmente non solo tutti gli apporti istruttori ma anche quelli decisori degli interessati.
È sulla base di questa ipotesi che la legge sul procedimento prevede come ipotesi principale di conclusione quella di un atto bilaterale che viene chiamato “accordo” e che costituisce il punto di incontro tra l’esercizio di buona fede della medesima funzione da parte del cittadino.
Non è facile comprendere la natura giuridica di un siffatto atto consensuale. La legge stabilisce che ad esso si applichino le norme relative alle obbligazioni e ai contratti, ma è da ritenersi che questa statuizione concerna l’apporto del privato mentre per la valutazione della validità e per l’interpretazione dell’apporto della Pubblica Amministrazione rimangono applicabili i principi relativi alla validità degli atti amministrativi.
L’accordo può anche concludersi con un provvedimento unilaterale per il sostegno del quale è necessaria una idonea motivazione relativa non solo alla conclusione dell’istruttoria ma specificamente intesa a giustificare l’esclusione dell’accordo e l’uso del potere unilaterale.
L’amministrazione è una macchina complessa e la burocrazie si muove tra molti ostacoli anche di carattere pratico con il che succede che le istanze degli interessati non trovino rapida attenzione e rapide risposte.
Il luogo nel quale, all’origine, si era manifestata questa difficoltà era quella dei ricorsi gerarchici dove il superiore spesso non provvedeva sollecitamente e la giurisprudenza aveva adottato l’orientamento di consentire al ricorrente di mettere in mora l’amministrazione, mediante la fissazione di un termine per provvedere, dopo di che si formava quello che fu chiamato il silenzio qualificato, in quanto consentiva di adire le vie giurisdizionali.
Il presupposto quella qualificazione del silenzio come rigetto del ricorso discendeva dal riconoscimento di un diritto soggettivo del ricorrente a vedere decisa la controversia.
Sulla base di questa originaria impostazione si ampliò poi il campo della qualificazione del silenzio come fatto o comportamento negativo estendendolo ai casi in cui fosse richiesto il rilascio di una concessione edilizia.
Qui vi era ugualmente il diritto soggettivo del proprietario che si esprimeva come ius aedificandi ma la legislazione in un primo tempo attribuì al silenzio dell’amministrazione il carattere di un rifiuto. Fu soltanto nel 1982 che si introdusse l’innovazione del silenzio – assenso in cui l’inerzia dell’amministrazione anziché avere un valore negativo assumeva valore positivo.
La legge 7 agosto 1990 n 241 estese il silenzio – accoglimento alla maggior parte dei casi in cui sussisteva una potestà autorizzatoria dell’amministrazione.
L’ipotesi del silenzio – assenso edilizio è stata praticamente abrogata con una legge nel ’92.
La verità è che ci troviamo in un momento nel quale sussistono due spinte contraddittorie:
- da un lato abbiamo quella della protezione dell’intervento pubblico pur in presenza di sottostanti diritti soggettivi
- dall’altro lato abbiamo l’avanzare del cittadino come soggetto co – amministratore nell’ambito del procedimento.
La soluzione di questa contraddizione può essere trovata osservando che l’attività del privato si inserisce nell’ambito del procedimento per cui si è potuto parlare di silenzio procedimentale , e finisce per sostituirsi all’inerzia dell’amministrazione con un’attività positiva per cui si è potuto parlare di silenzio – partecipativo.
Va considerato che il silenzio finisce per sostituire il provvedimento espresso; tanto che la legge prevede che l’amministrazione possa annullare l’atto di assenso purchè esso si sia illegittimamente formato e non ne sia possibile una sanatoria.
Conclusione à sia l’accordo che il provvedimento che l’atto di assenso, definiscono il procedimento e si pongono come atti autoritativi che modificano le posizioni giuridiche degli interessati: l’accordo e l’assenso con la loro automatica accettazione, l’atto amministrativo mediante un’imposizione d’impero.
Entro certi limiti possiamo pensare anche ad una quarta fare del procedimento, la fase dell’esecuzione. Se si pensi che l’esecuzione dei propri provvedimenti da parte dell’amministrazione non sia che un ulteriore sviluppo del potere esercitato nell’atto e non esplicazione di un diverso potere sia pure sanzionatorio, allora è possibile concepire una tale prosecuzione come un ulteriore sviluppo della stessa funzione ed è quindi possibile concepire tale esercizio comun fare del procedimento, diretta alla realizzazione degli effetti dell’atto.
Bisogna far attenzione a non confondere queste ipotesi con quelle che si verificano allorchè l’esecuzione del provvedimento avviene in via coattiva o a seguito di una pronuncia decisoria. In tal caso non si ha una fase esecutiva ma una forma di esplicazione di un potere diverso: quello di autotutela.
Neppure è una fase quella diretta a dare pubblicità all’atto emanato: non si tratta nemmeno di un procedimento ma di semplici operazione che non appartengono concettualmente all’istituto del procedimento.
Si riserva il nome di operazione amministrativa all’insieme di atti ordinati secondo una progressione seriale ma non costituenti esercizio di una funzione e pertanto non intesi a dar vita ad un atto provvedimentale. In questo senso si parla di operazioni elettorali, di operazioni di voto.