La tradizionale dottrina romanistica ritiene che la sentenza del giudice romano a conclusione della fase apud iudicem del processo formulare non abbisogni di motivazione (in quanto sul piano del diritto è già tutto risolto quando il magistrato, nella fase in iure, ha ritenuto che certi fatti esposti dall’attore o eccepiti dal convenuto, se accertati come veri, devono necessariamente comportare condanna/assoluzione del convenuto). La selezione dei fatti rilevanti ai fini della concessione di una certa azione processuale e le loro conseguenze giuridiche sono espresse nella formula che è data al giudice, quindi da ciò deriverebbe la generale irrilevanza delle sentenze dei giudici sul piano dell’interpretazione evolutiva del dir, mentre la formazione casistica dell’ordinamento sarebbe il risultato sul piano dell’effettività del diritto, dell’attività del magistrato giusdicente. La dottrina più recente ha però posto in luce come in realtà un elemento di grande elasticità nell’evoluzione del diritto classico è rappresentato dalla particolare struttura degli “iudicia bonae fidei” (che affidano all’officium iudicis la determinazione discrezionale sia dell’an che del quantum della condanna): il contegno delle parti contrattuali dovrà allora esser conforme alla “buona fede”. E’ indubbio che l’individuazione casistica del contenuto della “buona fede” ha avuto nel periodo classico implicazioni di enorme rilievo nella progressiva delimitazione dell’ambito d’applicazione delle relative azioni nonché nella definizione delle obbli reciproche delle parti nonché nei casi di responsabilità contrattuale.

Il problema di una rilevanza delle soluzioni dei casi concreti, quale quella che opera nella formazione del common law (in cui cioè ratio decidendi del singolo caso è individuata dal giudice-giurista come elemento della ratio generale dell’ordinamento e le singole rationes decidendi costituiscono nel loro insieme la rappresentazione dell’ordinamento) può porsi in realtà solo nell’ambito d’una formazione del diritto di tipo giurisprudenziale, perchè solo in un ordinamento di questo tipo la soluzione tecnica del singolo caso ricompone ad opera di un ceto di specialisti in un sistema razionale organico e coerente. In un sistema di questo tipo è in realtà irrilevante il problema del valore vincolante della singola decisione per i successivi casi simili: la storia del progressivo affinarsi della teoria del precedente nella teoria del common mostra come la regola dello stare decisis è in realtà una regola volta a limitare il potere discrezionale dei giudici inglesi, sancendone la subordinazione al common law stesso. La vera distanza tra il sistema di common e di civil è costituita da una diversa logica giuridica dei giuristi che in essi operano: l’operazione interpretativa implicata dall’applicazione di una norma generale e astratta (come la norma di un codice) è radicalmente differente da quella implicata dall’applicazione dei “precedenti”.

Il giurista di civil ritiene che, posta la regola del precedente vincolante, ogni precedente assume per il giudice del caso concreto valore di “norma”, quindi il giurista dovrebbe semplicemente replicare la decisione già presa nella decisione del caso simile. Il problema è però che la precedente decisione non è tecnicamente costruita come norma generale e quindi ciò che vincola il giudice successivo è la ratio decidendi (che solo il singolo giudice può indurre dal rapporto tra struttura giuridica dei fatti e la decisione come “regola giur” del singolo caso). Il giurista di common sa bene che per decidere il caso dovrà partire dalla “diagnosi” degli elementi di fatto del caso che deve giudicare, in quanto solo compiuta questa diagnosi potrà stabilire se il caso è veramente “simile” ad altri già decisi.

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