Il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101 Cost.) e alla sua coscienza. Eventuali errori da lui commessi, quindi, qualora l’impugnazione del suo provvedimento non sia ammessa, sono tamquam non essent, dovendo essere comunque rispettati dalle parti. Per quanto questo sia vero il nostro ordinamento prevede una responsabilità per il giudice:

  • disciplinare, rimessa all’iniziativa del Ministro di grazia e giustizia o del procuratore generale della Cassazione ed è di competenza della sezione disciplinare del CSM;
  • penale (ordinaria);
  • civile, attualmente disciplinata dalla l. n. 117 del 1988. Col codice del 1865 il problema era risolto in modo molto semplice, dal momento che il giudice era civilmente responsabile quando era imputabile di dolo, frode o concussione e in caso di omessa pronuncia sulle domanda delle parti. Per aversi questo secondo caso, in particolare, era necessario che la parte avesse fatto due istanze di sollecito. Con la riforma del sistema nel 1940 le due istanze furono ricondotte ad una sola, ma l’azione fu assoggettata all’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia e assegnata alla competenza di un giudice indicato dalla Cassazione. Tale soluzione si rivelò subito illegittima ai sensi della Costituzione repubblicana, ma fu modificata solo nel 1988, quando peraltro il legislatore ha introdotto una soluzione ancora più protettiva di quella previgente nei confronti dei giudici. L’aspetto che maggiormente sorprende della l. n. 117 del 1988 è che la misura della rivalsa risarcitoria nei confronti del giudice non può superare, salvo in caso di dolo, una somma pari ad 1/3 di un’annualità di stipendio percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione del risarcimento è proposta (evidente carattere corporativo).

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