La più nota e importante delle discriminazioni illecite è quella per sesso o genere. Già nella Costituzione è stato posto un primo divieto di discriminazione a tale riguardo, laddove nell’art. 37 viene sancito che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Inizialmente vi fu chi sostenne che la locuzione a parità di lavoro giustificasse la possibilità di pagare le donne in modo inferiore, e questo supponendosi che le donne rendessero meno degli uomini. Attualmente, invece, i problemi si concretano prevalentemente sulla diversa prospettiva delle pari opportunità di carriera. Il divieto di discriminazione retributiva fu consacrato anche dal Trattato di Roma (art. 119) e, successivamente, da due direttive comunitarie del 1975 e del 1976.

 Al di là delle fonti superiori, tuttavia, v’era comunque bisogno di una normativa legislativa ordinaria che desse più concretezza alla parità tra i due sessi sul lavoro. Essa fu quindi introdotta con la l. n. 903 del 1977 che ribadì ed estese ad ampio raggio il principio della non discriminazione per sesso a tutti gli aspetti del diritto del lavoro. A tale legge si deve anzitutto la prima proclamazione di illiceità della c.d. discriminazione diretta di genere, definita successivamente come qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso . Come si ricava da tale nozione, ai fini della discriminazione, non rileva il motivo psicologico di chi ha adottato l’atto, bensì l’effetto discriminatorio oggettivamente rilevabile (teoria oggettiva dell’atto discriminatorio).

In aggiunta la l. n. 903 previde una serie di divieti specifici di discriminazione, tutti confluiti nel d.lgs. n. 198 del 2006:

  • l’art. 27 vieta le discriminazioni nel momento dell’assunzione, le quali, tuttavia subiscono due rilevanti eccezioni:
    • il settore della moda, dell’arte o dello spettacolo, quando ciò sia essenziale alla natura della prestazione (co. 6).
    • le mansioni particolarmente pesanti, individuate dai contratti collettivi (co. 4).
    • l’art. 28 ribadisce il principio di parità per quanto riguarda la retribuzione, precisando che i sistemi di classificazione professionale debbono adottare criteri comuni per uomini e donne.
    • l’art. 29 estende il principio di parità anche all’attribuzione delle qualifiche e delle mansioni, nonché alla progressione in carriera.

 Il problema maggiore che ha sinora minato la forza di questa normativa è quello della difficoltà di provare la discriminazione, il cui onere è a carico di chi afferma di averla subita. Per tale ragione, sin dalla l. n. 125 del 1991, è stato introdotto, accanto al divieto di discriminazione diretta, un divieto di discriminazione indiretta. In base all’art. 26 co. 2 del d.lgs. n. 198 del 2006, la discriminazione in discorso ricorre qualora il lavoratore adotti atti (o politiche) che, pur non potendosi ritenere discriminatori, abbiano di fatto un impatto negativo, a meno che tali atti (o politiche) riguardino requisiti essenziali alla svolgimento dell’attività lavorativa.

In tali casi, è sufficiente che la lavoratrice discriminata porti in processo dati di carattere statistico, atti a dimostrare l’impatto negativo di un certo atto (o di una certa politica) su un gruppo determinato. A questo punto l’onere della prova della non discriminazione si rovescia sull’imprenditore, cui incombe di discolparsi dall’accusa di discriminazione.

 Sono previsti particolari strumenti di tutela giurisdizionale per tutelare il lavoratore e, soprattutto, la lavoratrice. Tra di essi è inclusa la proponibilità di un’azione giudiziale da parte di una figura istituzionale molto importante per la lotto alle discriminazioni e la promozione delle pari opportunità, la Consigliera di parità.

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