Le norme a tutela del lavoro e gli stessi contratti collettivi, rivolgendosi potenzialmente a tutti i lavoratori, producono un primo effetto di eguagliamento della posizione dei lavoratori. Quanto detto, tuttavia, non copre l’intera area della gestione dei rapporti di lavoro: alcune situazioni gestionali, infatti, non vengono regolate in modo specifico dalla legge o dai contratti collettivi, rimanendo sottoposte all’esercizio di un potere unilaterale del datore di lavoro.
L’esistenza di un diritto di parità di trattamento omnibus, ossia riguardante tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, è stata a lungo affermata da una parte della dottrina e della giurisprudenza:
- una sentenza della Corte costituzionale (1989) sembrò affermare, pur con una motivazione abbastanza oscura, proprio il principio di parità di trattamento omnibus.
- alcune pronunce di Cassazione, prendendo alla lettera la sentenza della Corte, giunsero a ritenere sindacabile anche i sistemi di inquadramento previsti dai contratti collettivi.
Questo orientamento (poi abolito), predisponendo la possibilità per il giudice di entrare nel merito di qualsiasi differenziazione, rischiava di mettere in discussione gli stessi assetti della contrattazione collettiva, cosa questa che portò ad una sorta di ribellione nei confronti di queste prime sentenze. La Corte di Cassazione, quindi, si riassettò, nel senso di negare l’esistenza di un diritto alla parità di trattamento, ritenuto non deducibile dai principi costituzionali.
Posta l’acquisita inesistenza di una regola generale di parità, l’ordinamento è rimasto attestato su un fronte meno ambizioso, vale a dire quello non della parità ma della non discriminazione. La regola che ha ad oggetto il divieto di discriminazioni, infatti, si limita a comportare che non è possibile fondare differenziazioni di trattamento basandosi su determinati fattori specificatamente individuati. I trattamenti praticati in ambito lavoristico, infatti, sono per definizione differenziati, e quindi, in senso letterale, discriminatori . La discriminazione quindi diviene illecita qualora si basi su determinati fattori, sui quali l’ordinamento, in relazione alla protezione di dati beni fondamentali, non consente che si possano istituire differenziazioni di trattamento. In questo modo l’ordinamento dispone una protezione nei confronti dei beni ritenuti di essenziale valore costituzionale, a tutela della dignità della persona.
Si fa poi riferimento ai diritti di libertà, considerato che numerosi fattori di discriminazione corrispondono non soltanto a meri modi di essere della persona (es. razza), ma all’esercizio di libertà costituzionalmente garantite (es. libertà associativa).
Quanto alla sanzione applicabile in caso di violazione dei divieti, essa si concreta in un’irrimediabile illiceità che, qualora riguardi atti negoziali, non può che risolversi nella nullità dei medesimi. Potendo la discriminazione essere perpetrata anche attraverso semplici comportamenti, le leggi più recenti hanno espressamente riconosciuto alla vittima della discriminazione anche l’eventuale risarcimento dei danni (non patrimoniali) patiti.