L’unico limite costituzionale rispetto alle pratiche di culto è il divieto di celebrare riti contrari al buon costume (art. 19). Una simile limitazione del divieto, in particolare, esclude qualsiasi sindacato sulla classificabilità del rito in senso religioso: il rito contrario al buon costume è vietato solo perché contrario al buon costume e non perché da tale contrarietà derivi una non religiosità del rito. Il limite del buon costume, pur essendo meno ampio del limite dell’ordine pubblico, presenta comunque una certa dose di incertezza, sia per l’elasticità propria del concetto di buon costume sia perché il contenuto di tale concetto varia a seconda che esso debba essere considerato in una prospettiva costituzionale, civilistica o penalistica:
- secondo la dottrina prevalente, il limite del buon costume rispetto ai riti non avrebbe un contenuto diverso del limite del buon costume rispetto alle pubblicazioni a stampa, agli spettacoli e a tutte le altre manifestazioni ad esso contrarie (art. 21 co. 6);
- secondo altra dottrina esiste una differenza tra il limiti di cui all’art. 19 e quello di cui all’art. 21 co. 6, con riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero: rispetto alla celebrazione dei riti, infatti, manca la possibilità di un’attività di prevenzione da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, che è invece consentita rispetto alle pubblicazioni, agli spettacoli e alle altre pubbliche manifestazioni.
Libero esercizio del culto (luoghi di culto).
Una piena tutela del diritto di libertà religiosa richiede che sia garantito ai cittadini il libero esercizio del culto, assicurando loro la disponibilità di luoghi a tale scopo deputati (es. chiese, santuari, moschee). Lo Stato, impegnato a garantire tale libertà, deve quindi provvedere alla costruzione di edifici che manchino e alla conservazione di quelli esistenti.
Sebbene nessuna disposizione lo preveda, è netta la sensazione che relativamente al finanziamento dell’edilizia di culto si sia formato un favor per le confessioni munite di intesa. La legislazione regionale, peraltro, sembra proporre una gestione dei diritti di libertà secondo criteri numerici, con la conseguenza che siano proprio i gruppi minoritari a dover rinunciare alla possibilità di avere un luogo di culto. Alla luce di tale situazione, sembra opportuna l’emanazione di una norma di diritto comune che recuperi l’irrinunciabile uguaglianza tra le confessioni, così come tenta di fare il progetto di legge sulla libertà religiosa (art. 23) in discussione in Parlamento.
Gli edifici di culto, quale che sia la confessione di riferimento, non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità confessionale. Salvi i casi di urgente necessità, peraltro, la forza pubblica non potrà entrare in tali edifici, senza averne dato previo avviso alla medesima autorità confessionale. Tali disposizioni, in particolare, evidenziano che nell’ordinamento giuridico italiano la tutela accordata agli edifici di culto deriva dal fatto di servire quale mezzo per il soddisfacimento di un interesse religioso (funzione sociale).