Dopo la caduta del fascismo, la situazione confusa che si era venuta a creare fu risolta dall’ordinanza n. 28 del 1944, la quale dispose l’eliminazione delle strutture sindacali-corporative e la ricostruzione di un regime di libertà sindacale. Tuttavia, per non lasciare i lavoratori privi di qualsiasi tutela, furono mantenute le norme relative ai contratti collettivi e alle altre fonti di diritto corporativa (attualmente contenute nel codice civile). Il sindacalismo antifascista, inizialmente riunito nella CGIL, perse ben presto la sua unitarietà, in quanto nel 1948 vennero a formarsi la CISL (cattolica) e la IUL (repubblicano-socialista).
Al diritto del lavoro, comunque, è stata riconosciuta una particolare legittimazione, con l’entrata in vigore della Costituzione, che ha segnato la trasformazione dello Stato liberale classico in Stato democratico liberale sul piano politico e in Stato sociale su quello economico e sociale. Il concetto di impegno sociale dello Stato, infatti, viene espresso o almeno sottinteso da numerose norme di principio, e tale impegno è rivolto principalmente verso i lavoratori subordinati, il cui lavoro viene particolarmente valorizzato.
Da allora il diritto del lavoro ha potuto fregiarsi di essere un diritto <<di attuazione costituzionale>>, cosa che però determinava la necessità di andare oltre al modello normativo offerto dal codice civile e alle sue varie lacune protettive, che potevano essere colmate solo attraverso la legislazione speciale.