Schmitt, sottile e raffinato teorico del decisionismo politico, aderisce al nazismo dopo un esordio come pensatore cattolico. Il moderno è nella sua analisi un processo di cupa smitizzazione che vede il venir meno dei mediatori, la rarefazione delle differenze solide, lo sgretolamento dell’ordine. Contro il nichilismo assoluto del regno delle quantità, delle merci indifferenti, dell’economico che entra in simbiosi totale con il tecnico, la chiesa può vantare capacità superiori di autentica “rappresentazione”, mediazione.
Per Schmitt la chiesa conserva la forma, la differenza. La politica può rinascere solo se si presenta nelle vesti radicali di una potenza sovvertitrice capace di proiettare il mondo oltre i limiti della tecnica. Il liberalismo è chiacchiera, vana pretesa di trovare un fondamento rassicurante. Del regime totalitario, che rende il capo visibile, apprezza molto il fatto di “non essere impacciato dalle false idee egualitarie di uno schema liberaldemocratico”.
Per Schmitt il nazismo deve sbarazzarsi dell’eguaglianza giuridica dell’età liberale rimarcando il ruolo incancellabile delle differenze. E deve poi bloccare ogni slittamento verso una società pluralistica attraverso il potenziamento estremo del principio di comando e di unità incarnato dallo stato e dal suo capo. L’idea di comando non sopporta alcuna resistenza, alcuna voce di differenza rispetto alle decisioni supreme del capo.
È trasparente il bersaglio del decisionismo di destra. Molte idee che Schmitt vede così ben messe in pratica dal nazismo egli le ha precisate prima ancora della comparsa del movimento Hitleriano. Agli occhi di Schmitt, il formalismo dello stato liberale e la normatività e astrattezza del diritto vengono demoliti nella società di massa del ‘900. la sua opinione è che con l’entrata in scena di nuovi attori politici e sociali, l’autorità pubblica si sarebbe di un colpo frantumata e dispersa in mille rivoli.
Tra crescita delle soggettività e persistenza dello stato di diritto egli vede una tensione inconciliabile. Il fatto che lo stato non sia più da ritenersi l’unico organismo politicamente rilevante, non significa per Schmitt che sono disponibili maggiori garanzie, libertà politiche nuove, spazi più ampi di iniziativa autonoma riservati alla società. Egli anzi registra la moltiplicazione illimitata dei nuovi soggetti del “politico” come appannamento irreversibili della capacità di comando e quindi come scivolamento latente in una condizione di guerra civile potenziale.
Schmitt usa la presenza di nuovi soggetti per mostrare le tante crepe del vecchio edificio liberale sconvolto dall’impossibilità di gestire con le forme giuridiche le diverse tendenze della politica di massa. E introduce il tema dell’impotenza decisionale degli istituti postliberali per giustificare una iniziativa eccezionale che converta una parte in stato e metta fuori gioco i nuovi soggetti del politico. Solo con la scelta di un capo sarebbe stato possibile evitare le sabbie mobili del governo debole e della lacerazione pluralistica della comunità nazionale.
Con il decisionismo, il diritto viene a perdere autonomia per essere inghiottito nella contingente e mutevole volontà politica. Nella antitesi amico-nemico Schmitt individua il vero e più resistente marchio distintivo di ogni politica autentica. Ipotizzare che il conflitto tra parti ideologicamente distanti possa esplicarsi nella cornice della legalità è una pura e semplice illusione.
Senza la prospettiva della guerra civile si “gioca” ma non si sviluppa in alcun modo quell’antagonismo reale e irriducibile senza il quale non esiste politica. Postulando la guerra come destino, Schmitt rinuncia alla costruttività della politica e all’effetto civilizzatore delle forme o regole del gioco. Solo al di fuori di qualsiasi tutela giuridico-statale della diversità e delle minoranze, è possibile trasformare l’inimicus in hostis da annientare fisicamente.
Per Schmitt “l’autorità dimostra di non avere bisogno del diritto per creare diritto”. Il suo tempo è quello della politica che non trova più le risorse per distinguersi dalla guerra. La politica trova il significato non nell’eliminazione del nemico, ma nella misurazione della sua forza, nella difesa da esso e nella conquista di un confine comune. In una età che affina la protezione giuridica dei diritti umani e delinea la loro tutela su scala oltre statuale, Schmitt si affretta a rigettare la stessa nozione di umanità.
Il suo convincimento è che il concetto di umanità esclude quello di nemico. Schmitt si impegna per la difesa del politico come criterio che non può fare a meno del nemico. Contro i riti della democrazia rappresentativa egli rivendica la portata pubblica ben più pregnante della acclamazione.
Nelle adunate attorno al capo non c’è più spazio alcuno per le tecniche garantiste di una democrazia indecisa che perde tempo a contare il voto degli individui. Per Schmitt il requisito secondo cui la maggioranza decide “è sensato ed accettabile se viene presupposta una sostanziale omogeneità di tutto il popolo”. La sua idea non tollera parti, differenze. Improvvisamente la maggioranza non è più partito, è lo stato stesso.
Schmitt riflette ad ampio raggio sulla “terra” come elemento cardine degli ordinamenti politici, a partire da quelli primordiali. L’effettività stessa del diritto è strettamente legata al controllo della terra sulla quale si estende un ordinamento giuridico particolare provvisto di efficacia. La terra, assunta di solito come un elemento naturale e astorico, presenta invece determinazioni storiche molto significative. Lo spazio è in certa misura curvato dal tempo o dalla accumulazione storica delle esperienze sociali.
Il tempo assegna un valore ben diverso al territorio imperiale, a quello curtense, a quello statale o a quello della cittadinanza post-nazionale. Con il moderno stato territoriale, che ritaglia uno spazio specifico su cui esercitare il suo dominio giuridicamente fondato, la politica acquista una autonomia reale rispetto alla teologia. Schmitt non a caso definisce lo stato nazionale a base rappresentativa “il veicolo storico della deteologizzazione”.
Il fondamentalismo è un elemento strutturale di ogni politica sottoposta al plusvalore religioso. Fino a quando la potestas spiritualis della chiesa esercita un dominio politico reale nell’andamento del mondo, non c’è spazio alcuno per una convivenza tra stati regolati dalle forme laiche del diritto.
Su basi del tutto laiche, la politica moderna arriva a definire un nuovo ordo spiritualis sviluppato istituzionalmente. È la deteologizazzione della politica a consentire l’appartenenza a una comunità internazionale che espelle le sopravvivenze teologiche della guerra giusta e condanna la guerra come crimine contro l’umanità.
Schmitt non sviluppa queste tematica; egli non accenna neppure alla nascita dell’ONU. Riesce solo a indicare che “l’ordinamento eurocentrico finora vigente del diritto internazionale sta oggi tramontando. Con esso affonda il vecchio nomos della terra”. Si è insomma definito uno spazio culturale, immateriale per così dire, di regolazione giuridica, che scavalca l’assunto naturalistico si Schmitt secondo cui proprio il rapporto immediato con la terra è “l’atto primordiale che istituisce il diritto”.
La diversità notevole dei ritmi di sviluppo storico esistente tra le diverse terre del pianeta ha poi consegnato alla politica il compito di gestire una difficile interdipendenza tra popoli giovani che ancora rivendicano una terra autonoma per diventare nazioni, e così accedere al rango di autentici soggetti di diritto internazionale, e popoli con più antica memoria storico-politica che invece avvertono l’usura dei vecchi contenitori statali e sono impegnati nella costruzione di nuove aggregazioni spaziali sub continentali.
Ma i vecchi idoli del sangue e della terra non apriranno nuove stagioni di guerra civile mondiale. “è agli spiriti pacifici”, questo è il messaggio ottimistico di Schmitt, “che è promesso il regno della terra. Anche l’idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro”.