ARTICOLO 1325 C.C. Indicazione dei requisiti
I requisiti del contratto sono:
1) l’accordo delle parti;
2) la causa;
3) l’oggetto;
4) la forma,quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità .
E’ importante porsi nella condizione di valutare da un lato, quale definizione di “contratto” sia più consona ad inquadrare il problema del contratto con se stesso; e dall’altro lato, valutare quale nozione di “accordo” possa esplicitare la medesima questione.
Per ciò che concerne la definizione di contratto, che alla luce di quanto esposto precedentemente sembra essere maggiormente utile alla nostra indagine, sembra opportuno puntare l’attenzione nei riguardi del contratto inteso come “regolamento di interessi da riferirsi almeno a due distinte parti”: è necessario, perciò, che il contratto intenda soddisfare determinati assetti di interessi che siano riconducibili alla titolarità di almeno due figure soggettive.
Per ciò che concerne l’accordo, non può negarsi che la concezione del contratto, così come la abbiamo esposta, influenza non poco la sua definizione. L’accordo è pur sempre un requisito del contratto, cui l’ordinamento fa corrispondere la nullità dello stesso, in caso di sua mancanza; tale requisito però deve essere inteso come lo strumento giuridico del quale l’ordinamento si serve al fine di ricondurre il regolamento d’interessi alle due parti predisposte: ossia, in altri termini, perché l’assetto di interessi protetto e realizzato dal contratto possa essere efficace nei confronti di più parti (almeno due) è opportuno che sussista un accordo, che ne costituisce il criterio di collegamento (o riferimento).
L’ordinamento prevede molteplici criteri di collegamento, che pur essendo il frutto dell’autonomia privata dei singoli, si presentano strutturalmente distinti dall’accordo.
Alla definizione che si è fornita del contratto e dell’accordo non sfugge la disciplina del contratto con se stesso: in effetti, anche tale tipologia contrattuale presenta la duplicità delle parti interessate (si configura la presenza del rappresentato, da un lato e del rappresentante, dall’altro); nonché l’esistenza di un accordo tra le suddetti parti, come criterio di riferimento dell’assetto d’interessi del contratto ad entrambe.
Probabilmente, l’unica, rilevante eccezione che possa indurre a distinguere il contratto con se stesso dalle altre tipologie contrattuali è la circostanza per la quale in esso figura solo il rappresentante, il quale manifesta in via singolare la sua sola volontà (di vendere ed acquistare un determinato bene),e che per questo motivo può indurre a ritenere il contratto con se stesso quale manifestazione di un regolamento contrattuale che vive sulla base della unilateralità delle dichiarazioni (è solo il rappresentante a manifestare la propria volontà in merito al contratto da concludere).
Il nostro ordinamento, per contro, non esclude la validità dei contratti unilaterali, essendo stati anzi questi un terreno di ulteriore affinamento della disciplina dei contratti e dei negozi giuridici in genere, senza per questo poter escludere, però,nel contratto con se stesso la presenza di tutti i requisiti che, nel senso in cui lo abbiamo inteso, ne facciano un contratto in piena regola.
In capo alle parti contrattuali, è comunque opportuno distinguere due momenti che si ricollegano entrambi alla manifestazione di volontà che le caratterizza: attraverso le dichiarazioni volitive che esse realizzano, le parti intendono sicuramente manifestare l’assetto di interessi che vogliono regolare mediante il contratto; ma altresì esse intendono manifestare un accordo, quale criterio di collegamento di tali interessi a loro medesimi: in altri termini, nel momento in cui le parti manifestano la propria volontà in ordine alla realizzazione di un contratto, all’interno di essa deve distinguersi la manifestazione di volontà diretta a creare l’assetto d’interessi, da quella diretta a fondare l’accordo, quale criterio di riferimento del contratto alle parti.
Tale tipologia dottrinale non fa altro che surclassare ulteriormente il ruolo che l’accordo riveste nel regolamento contrattuale, a dispetto di quanto affermato dall’articolo 1325 c.c. ,che come si è visto parla dell’accordo come di un “requisito” a pena di nullità del contratto; sembra allora chiaro che l’accordo deve essere ritenuto nel senso anzidetto solo in alcuni sporadici casi in cui il criterio di riferimento del contratto alle parti non possa essere altro che l’accordo, lo stesso ponendosi come requisito fondamentale di alcune tipologie di contratto (orientamento questo che ha finito, col tempo, per influenzare pesantemente il legislatore nella determinazione dell’articolo 1325).
Posto, dunque, che l’accordo non costituisce requisito fondamentale del contratto e della sua esistenza, se non in alcuni,limitati casi specifici, è chiaro che l’ordinamento abbia previsto ulteriori criteri di riferimento ai quali ricondurre la determinazione di assetti d’interessi contrattuali; ciò che resta da chiedersi è se, in virtù dell’autonomia negoziale della quale i privati soggetti godono, sia reso possibile a questi determinare nuovi criteri di riferimento, che non abbiano alcun seppur minimo appiglio con le indicazioni di legge.
Poiché, si afferma, il criterio di riferimento viene utilizzato dal nostro ordinamento al fine di individuare un certo assetto di interessi, e porlo alla base di un regolamento contrattuale, non si ritiene opportuno consentire alle parti private di agire discrezionalmente in tale ambito, che è peraltro di schietta esclusiva dell’ordinamento giuridico.
E vi è di più: non si esclude che l’ordinamento abbia individuato diversi criteri di riferimento che possano essere modulati sulla base della loro maggiore o minore pregnanza a determinare l’assetto di interessi, in modo tale da riferire ad un regolamento d’interessi più articolato e complesso un criterio di riferimento più agile e facilmente determinabile, ed al contrario, ad un regolamento d’interessi più semplicisticamente individuabile, un criterio di riferimento di norma più complesso.
E lo stesso deve essere accaduto per il contratto con se stesso, dove a fronte di un regolamento d’interessi che presenti una certa difficoltà di inquadramento e di disciplina, corrisponde un criterio di riferimento alquanto semplice da individuarsi. Posto che l’ordinamento opera a priori tale divisione, deve escludersi che le parti possano essere anche solo ammesse a scegliere tra criteri di riferimento diversi, quello che vogliano effettivamente impiegare.
Da quanto si è avuto modo di affermare, si evince con una certa facilità la considerazione per la quale il requisito della “pluralità delle dichiarazioni”, che pure si è più volte espresso quale manifestazione del contratto, non è un requisito fondante la validità ed il perfezionamento del regolamento contrattuale; è bensì il requisito fondante della costituzione di uno dei criteri di riferimento del contratto, ovvero l’accordo o consenso: in altri termini, è necessario che siano almeno due parti a manifestare espressamente la loro volontà per fondare tra loro un accordo, che non deve essere confuso con il contratto (ossia, non si può affermare che l’accordo sia un sinonimo del contratto),ma deve essere inteso come criterio di riferimento al contratto, mediante il quale l’assetto d’interessi in esso contenuto può essere riferito ad almeno due distinte parti contrattuali. Pertanto,il requisito della pluralità delle dichiarazioni risiede in capo ad un elemento strumentale del contratto, come può essere l’accordo, ma non in capo al contratto stesso (od almeno non vi risiede necessariamente).
Ad analoga conclusione si perviene se si considera il procedimento di formazione del consenso, che come vuole la dottrina più accreditata, si realizza mediante lo schema “proposta – accettazione”. Deve infatti affermarsi che nel momento in cui si realizza una proposta contrattuale, e questa venga successivamente accettata non è il contratto in quanto tale che si perfeziona (ed abbiamo già avuto modo di spiegare i motivi che stanno alla base di tale nostra affermazione),ma è uno dei criteri di riferimento al contratto, nello specifico l’accordo: in altri termini, le parti raggiungono un accordo quando la proposta avanzata da una venga accettata dall’altra. Perciò, un contratto, quale regolamento d’interessi, può dirsi perfettamente realizzato quando sia giunto a compimento il suo criterio di riferimento, e nel caso dell’accordo, quando questo abbia concluso tutto il suo iter formativo, sulla base dello schema “proposta – accettazione”.
Per ciò che concerne il contratto con se stesso, allora, deve dirsi che lo stesso giunge a compimento quando il suo criterio di riferimento si sia perfezionato, consistendo lo stesso nella manifestazione di volontà , da parte del rappresentante, di voler contrarre con se stesso, o per conto di altro rappresentato (ipotesi della cd. doppia rappresentanza).
Tali determinazioni hanno condotto ad un ripensamento dottrinale di alcune categorie disciplinari presenti nel contratto: non si vuole, ad ora, solo indagare sul “se” e sul “quando” il criterio di riferimento sia giunto a realizzazione, ma anche sul “come” si sia giunti a tale risultato. E gli ambiti contrattuali che più di altri ne hanno subito le conseguenze, ripensandosi dal punto di vista dottrinale sono stati il “rapporto contrattuale” ed il “contenuto contrattuale”.
Il rapporto contrattuale deve allora essere inteso come il regolamento d’interessi che è posto alla base della contrattazione,e che non può essere confuso con l’insieme delle obbligazioni nascenti dal contratto, e che le parti devono soddisfare; anzi,tale rapporto obbligatorio perde ogni autonoma fisionomia, degradando anch’egli in assetto d’interessi deciso dal contratto. E lo stesso accade per il contenuto contrattuale, che deve essere inteso come l’insieme delle determinazioni precettive (o di comando) che vengono imposte alle parti, e che non può essere più scisso dal contratto stesso, nel cui contenitore esso è presente.
Sulla base di quanto fino ad ora esposto, e tenendo presente (come si è più volte detto) il concetto di bilateralità che si è voluto determinare, è chiaro che lo stesso possa essere riferito anche alla categoria dei negozi giuridici unilaterali; di fatti, essendo un contratto bilaterale quando il suo assetto d’interessi possa essere ricondotto, mediante un qualsiasi idoneo criterio di riferimento stabilito dalla legge, ad almeno due parti, si verifica che anche un negozio o contratto che presenti una sola dichiarazione di volontà , proveniente da una sola parte contrattuale può essere bilaterale,ossia può presentare un assetto d’interessi in base al quale devono essere soddisfatte almeno due parti.
Ed al fenomeno della unilateralità della dichiarazione deve proprio ricondursi il contratto con se stesso: in questo ambito, infatti, sussiste esclusivamente la dichiarazione di volontà del rappresentante, che si pone quindi quale unica parte contraente. Si è avuto però modo di affermare che l’unilateralità della dichiarazione, incidendo solo sulla formazione del criterio di riferimento al contratto, non inficia la bilateralità dello stesso: pertanto, anche un contratto come quello con se stesso,pur fondando il proprio criterio di riferimento sull’unilateralità della dichiarazione (e non sull’accordo, come si ritiene che normalmente dovrebbe essere) è sostanzialmente un contratto bilaterale.
Ed allora, la peculiarità del contratto con se stesso rispetto alle altre tipologie contrattuali classiche non consiste nell’elemento strutturale, ma solo nel procedimento di formazione del criterio di riferimento. E vi è di più: stando così le cose, parte della dottrina non ha neppure escluso che il contratto con se stesso non rappresenti una distinta ed autonoma tipologia contrattuale, ma sia stato posto dal legislatore, esso stesso come ulteriore criterio di riferimento al contratto.
Ovviamente, la maggior parte della dottrina è ancora fortemente ancorata al concetto di accordo come unico criterio di riferimento ammissibile: ciò comporta, che ogni regolamento contrattuale che non si fonda sull’accordo scaturente dallo schema classico “proposta – accettazione” viene visto come un fenomeno altamente anormale, relegato nel novero della straordinarietà . Ciò comporta la fossilizzazione delle ideologie inerenti il contratto ad una unica determinazione possibile, nonché comporta l’incapacità di valutare la specie del contratto con se stesso, ad esempio, come un valido terreno dal quale attingere valutazioni dottrinali per spiegare il fenomeno contrattuale.
Analizzando specificamente, allora, il contratto con se stesso sul piano della disciplina contrattuale si perviene alla conclusione che lo stesso giunge al suo perfezionamento nel momento in cui il suo criterio di riferimento specifico giunge esso stesso a compimento: ossia nel momento in cui il rappresentante manifesta la volontĂ di voler contrarre con se stesso, ovvero per conto di altri.
Tale manifestazione di volontà non è assolutamente fine a se stessa, ma è necessaria nei confronti del rappresentato (o dei rappresentati),poiché costituisce un dovere del rappresentante, pur non essendo uno strumento perfezionativo del contratto; l’inosservanza di tale dovere specifico comporta, infatti, in capo al rappresentante l’onere di risarcire del danno subito il rappresentato non messo a conoscenza.
La dichiarazione può avvenire, e di regola avviene, in maniera tacita, da ricavarsi attraverso i comportamenti concludenti del rappresentante; e solo qualora il contratto che si intenda stipulare con se stesso necessiti della forma scritta, per la sua validità , anche tale manifestazione di volontà dovrà essere realizzata espressamente.
Esistono almeno due tipologie contrattuali che presentano non poche particolaritĂ qualora alle stesse si volesse ricondurre la disciplina del contratto con se stesso:
- i contratti consensuali fondano, come è noto, la loro rilevanza sulla prestazione del consenso da entrambe le parti: è questo il loro criterio di riferimento. E’ ovvio che tale prestazione di consensi non può aversi nel contratto con se stesso,essendo lo stesso caratterizzato da una dichiarazione unilaterale di volontà . Ed allora dovrà giungersi alla tesi per la quale lo stesso criterio di riferimento del contratto consensuale, nell’ipotesi di contratto con se stesso,deve essere mutato: dal consenso delle parti deve passarsi alla dichiarazione unilaterale di volontà ;
- i contratti reali si perfezionano mediante la consegna della cosa oggetto del regolamento contrattuale, oltre che attraverso la prestazione del consenso. Nell’ipotesi di un contratto con se stesso, stante la possibilità di superare la questione r elativa al consenso nel modo in cui si è precedentemente detto, non si vede come invece possa superarsi la questione relativa alla consegna della cosa: in questo caso infatti, sarebbero necessari, oltre che due parti volitive, anche due soggetti distinti che possano fisicamente operare il trasferimento; e nel contratto con se stesso tale duplicità fisica è inesistente.
Per quanto concerne le capacità che devono riconoscersi in capo al rappresentante perché questo possa agire in esecuzione del contratto con se stesso, si suole distinguere:
- il rappresentante che decida di stipulare il contratto per conto di altro rappresentato, essendone egli ugualmente il rappresentante, dovrà possedere la sola capacità di intendere e di volere: infatti, la sua sarà sempre e solo una funzione di rappresentanza diretta, la stessa però condotta in veste di procurator di due dominus differenti;
- il rappresentante che decida di contrarre con se stesso (o in proprio) dovrà invece possedere la capacità di agire, poiché oltre ad essere rappresentante, egli esercita direttamente tale attività nella sua sfera giuridica, e dovrà perciò essere in grado di ricevere ed esercitare le conseguenze di diritto che derivano (come se fosse anche rappresentato, dunque).
Per ciò che attiene i vizi della volontà , va detto che gli stessi ben possono estendersi al contratto con se stesso, inficiando la sola dichiarazione del rappresentante, e dovendosi adeguare nella loro disciplina a tale nuova tipologia contrattuale.