Art.624: “Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, e con la multa da euro 154 ad euro 516. (2) Agli effetti della legge penale si considera cosa mobile anche l’energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico. (3) Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61 n.7 e 625”.

I concetti cardine della fattispecie di furto sono:

  1. detenzione
  2. sottrazione
  3. impossessamento / spossessamento
  4. cosa mobile altrui
  5. fine di trarne profitto

 

Detenzione

Il presupposto per l’applicazione del reato di cui all’art.624 è che la cosa mobile sia detenuta da altri: vi deve essere un soggetto che abbia con la cosa questa relazione, ossia la detenzione. La detenzione è un elemento introdotto dal codice del 1930, in quanto il codice Zanardelli non richiedeva tale presupposto, punendo i soggetti che si impossessavano della cosa altrui spostandola dal luogo in cui si trovava.

Nel diritto civile la detenzione viene qualificata come una relazione materiale, un rapporto di fatto con la cosa (corpus), cui si accompagna un animus detinendi. Per esigenze penalistiche, questo potere sulla cosa non deve estrinsecarsi immediatamente in una relazione fisica con la cosa stessa, essendo riconducibile al concetto di detenzione anche una mera disponibilità potenziale.

Si pensi ad esempio ad una macchina lasciata incustodita: non vi è dubbio che la vettura sia detenuta da qualcuno che, pur non essendo fisicamente presente, sia in grado di ristabilire in qualsiasi momento una relazione fisica con la macchina, ad esempio tornando al parcheggio; pertanto con la sottrazione della vettura, il reato di furto si configurerebbe pienamente.

Si tratta di un elemento sul quale si è discusso molto nei lavori preparatori, tanto che la stessa relazione afferma che “alcuni hanno disapprovato la formula ‘sottraendola a chi la detiene’, perché, in base ad essa, potrebbe ritenersi inesistente il reato in tutti quei casi in cui la cosa non è materialmente detenuta da alcuno”. Si pensi all’auto lasciata nel parcheggio incustodito dell’aeroporto durante un viaggio all’estero, alla mazzetta di danaro fatta scivolare dal ladro in fuga nella tasca del passante che ignora quindi di detenere la cosa, alle cose dimenticate o alla sottrazione di oggetti dal cadavere: in tutti questi casi non è vi è in effetti alcuna detenzione, non essendoci una relazione fisica nemmeno potenziale.

Non sempre l’impossessamento è realizzato mediante la sottrazione al detentore, sicché la detenzione, in definitiva, non costituisce un elemento indispensabile per l’integrazione del reato di furto, altrimenti bisognerebbe ammette la non configurazione del reato per una nutrita serie di ipotesi nelle quali, come abbiamo visto, manca la detenzione.

Escludendo la detenzione, i due elementi fondamentali per la configurazione del reato di cui all’art.624 devono ritenersi quindi sottrazione e spossessamento.

 

Sottrazione e impossessamento

Innanzitutto occorre verificare se la sottrazione e l’impossessamento siano due momenti distinti di un medesimo comportamento, oppure siano due attività separate ed autonome che vadano accertate in modo distinto oppure se si tratti di un unico elemento.

Una prima impostazione afferma che sottrazione ed impossessamento non sarebbero altro che due prospettive di un’unica condotta, e che pertanto non sarebbero distinguibili. Tuttavia tale orientamento non appare condivisibile, perché si tratta invece di due momenti concettualmente divisibili e da accertare in modo differente.

E’ vero che nella maggior parte dei casi sottrazione ed impossessamento possono coincidere dal punto di vista materiale, ma vi sono ipotesi in cui i due momenti sono cronologicamente distinti: si pensi al ladro che dopo aver sottratto la refurtiva, la lasci in un determinato luogo per poi tornare a recuperarla in un momento successivo.

 

Possesso

Occorre definire quando in diritto penale si può parla re di “possesso” e quindi di“impossessamento”. Si ritiene insufficiente la nozione civilistica che identifica il possesso come il potere di fatto sulla cosa, con l’intenzione di esercitare sulla cosa poteri afferenti al diritto di proprietà o ad altri diritti reali (animus possidendi).

In diritto penale il possesso è da intendersi come “quel potere sulla cosa che si esercita al di fuori della sfera di controllo o di sorveglianza di chi ha sulla cosa stessa un potere giuridico maggiore”. Tale definizione può essere ricavata dalla fattispecie di appropriazione indebita che prevede nella figura base che l’autore abbia “a qualsiasi titolo il possesso”, e poi inserisce un’aggravante qualora l’appropriazione sia effettuata a titolo di deposito necessario. Nel diritto civile il contratto di deposito instaura un rapporto di mera detenzione, ma nel penale ciò non è possibile perché se l’aver commesso il fatto a titolo di deposito è un’aggravante di un reato che di base prevede il possesso, allora vuol dire che il deposito, a livello penalistico, può instaurare una situazione di possesso: possesso inteso però non in senso civilistico, ma nella suddetta accezione penalistica.

Tipico esempio del contratto di deposito è infatti quello del garagista che custodisce le autovetture nella propria rimessa. Il garagista ha già il possesso delle stesse autovetture, in quanto può esercitare il proprio potere di fatto al di fuori della sfera di sorveglianza dei proprietari dei singoli autoveicoli. Sicché qualora decida di portarsi via una delle macchine, dovrà rispondere di appropriazione indebita, essendoci già una situazione di possesso. Viceversa risponderà di furto quando la situazione di possesso non si è instaurata, perché magari il proprietario della vettura gli ha appena consegnato le chiavi ed è ancora lì nei pressi dell’auto. Il momento in cui avviene l’impossessamento del delitto di furto è pertanto quello in cui il soggetto può esercitare sulla cosa un potere al di fuori della sfera di controllo o di sorveglianza di chi ha sulla cosa un potere giuridico maggiore.

 

La cosa mobile altrui

Occorre identificare correttamente i connotati dell’altruità. Per esempio, si discute in merito alla configurabilità del furtum rei propriae, ossia il caso in cui un soggetto vada a sottrarre la cosa di cui è proprietario ad un altro soggetto che ne abbia un diritto di godimento.

Ad una prima tesi che ne afferma l’ammissibilità in ragione del riconoscimento costituzionale della “funzione sociale” della proprietà, si oppone un secondo orientamento in cui si nega tale configurabilità, non essendoci alcuna espressa previsione in tal senso e sottolineando che il legislatore ha provveduto ad abrogare la norma (627) che puniva il furto di cosa comune.

 

Il fine di trarne profitto

Come emerge dalla lettura della norma, si richiede che la sottrazione e l’impossessamento della cosa mobile altrui avvengano “al fine di trarne profitto” sia per sé che per altri, delineando apparentemente un classico caso di fattispecie a dolo specifico.

Il dolo specifico assolve ad una funzione di selezione di fatti penalmente rilevanti, sicché in tutti i casi nei quali il soggetto abbia agito per un fine diverso non rientrano nel quadro di incriminazione della norma. Ma nel caso del furto, nonostante la formula in esame sia tipica del dolo specifico, in realtà si tratta di un dolo specifico soltanto apparente.

Dottrina e giurisprudenza concordano nel qualificare il profitto come “qualsiasi soddisfazione, godimento, utilità o vantaggio anche morale” che il soggetto si riprometta dalla commissione del fatto. Ma allora, il ladro potrà mai agire senza il fine di trarne profitto? Mai. Perché qualunque condotta di impossessamento e sottrazione della cosa mobile sarà sempre posta in essere per un profitto, anche solo morale: non vi è altra via.

In conclusione occorre sottolineare che la norma richiede che la condotta sia posta con il fine di “trarne” profitto: cioè il fine del profitto deve essere immaginato come direttamente discendente dalla cosa, altrimenti il reato non si configura. Si pensi alla prostituta che, non avendo avuto la controprestazione in danaro da parte del cliente, si impossessa del libretto di circolazione, contando sul suo timore ad andare via senza quel documento: il fine di profitto sperato dalla donna non sarebbe derivato dalla cosa (dal libretto) ma da una serie successiva di eventi immaginati come possibili (controllo dei carabinieri, multa…), e pertanto in tal caso non si realizzerebbe un delitto di furto.

 

Il momento consumativo

Circa il momento consumativo, storicamente si possono individuare alcune teorie che lo individuano nella semplice apprensione della mano sulla cosa, oppure nel togliere la cosa dal luogo in cui si trova, o ancora nel trasferimento della cosa in un posto sicuro (ablatio).

Oggi queste teorie non sembrano coerenti con il dato normativo. La fattispecie richiede l’impossessamento della cosa mobile, ed è questo il momento che segna la consumazione del delitto. Pertanto il furto rimane “tentato” finché il soggetto non sia riuscito a far uscire la cosa dalla sfera di controllo di chi abbia sulla stessa un potere giuridico maggiore.

In materia vi sono però oscillazioni giurisprudenziali, soprattutto in materia di furti realizzati su cose esposte sugli scaffali all’interno di supermercati: per alcuni è sufficiente l’apprensione materiale, per altri occorre superare le casse. La dottrina propende per la seconda opzione, in quanto il soggetto rimanendo all’interno del supermercato non è ancora uscito al di fuori della sfera di controllo del titolare del potere giuridico maggiore.