Il diritto al rifiuto alle cure è oggi pienamente operativo grazie alla disciplina ordinaria sul consenso informato. Ad ogni modo, già in precedenza tale diritto non poteva essere messo in dubbio, in base ad una corretta lettura dell’art.32 Cost., il cui riferimento all’interesse della collettività potrebbe eventualmente riguardare solo i casi in cui il mancato trattamento terapeutico del singolo possa minacciare la salute di terzi.

Il diritto al rifiuto alle cure non riguarda solo l’accanimento terapeutico (sottoposizione ad una terapia incapace di guarire il paziente) o l’accanimento diagnostico (sottoposizione ad esami stressanti ed invasivi senza prospettive di cura), ma può essere fatto valere dal paziente in qualunque stadio della malattia o della fase del trattamento.

La legge 219/2017 obbliga il medico ad astenersi da ogni ostinazione irragionevole della somministrazione delle cure, ed al ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. Emerge qui il problema di stabilire se il divieto di accanimento possa essere superabile dalla eventuale richiesta del paziente, consistente in sostanza in una irragionevole speranza di guarigione.

La questione si pone frequentemente nel caso in cui la richiesta non arriva dal paziente stesso, perché minore o incapace, ma dai sui rappresentanti (ad esempio i genitori): si tratta cioè di situazioni in cui, alla richiesta del rappresentante di proseguire le terapie -richiesta alimentata da una speranza irragionevole -, si opponga il rifiuto del medico, fondato sul suddetto divieto.

Dopo il famoso caso Lambert e la relativa pronuncia della Corte EDU, sembra progressivamente consolidarsi la tendenza a ritenere il medico quale depositario del “best interest” del paziente, in una ottica di rinnovato paternalismo.

Importante è stata poi l’introduzione delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), il cosiddetto testamento biologico: si tratta di un documento in cui un soggetto dichiara anticipatamente i trattamenti sanitari ai quali acconsente.

Le DAT suscitano diverse perplessità, non solo per la carenza di attualità della volontà manifestata o per la possibile divergenza rispetto alla futura situazione concreta, ma soprattutto per il rischio di una insufficiente considerazione delle conseguenze, senza contare che le decisioni, specialmente nei più giovani, possono essere dettate da suggestioni ideologiche o spinte emotive. In materia di DAT, inoltre, vi è un obbligo gravante sul (futuro) paziente il quale può autodeterminarsi esprimendo la propria volontà riguardo ai futuri trattamenti sanitari solo dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte. Tuttavia tale acquisizione di informazioni non viene verificata.

Infine occorre segnalare che sul medico grava infine l’obbligo di porre in essere le pratiche necessarie affinché la morte sia serena ed indolore. Di fronte al rifiuto delle cure, pertanto, cade l’obbligo di curare ma non quello di attuare i trattamenti palliativi, atti ad alleviare le sofferenze, fino alla sedazione profonda.