La storia del diritto è attraversata da un’ampia schiera di personaggi poco raccomandabili: ad ognuno di questi personaggi il diritto ha riservato un particolare trattamento, stabilendo determinate conseguenze come punizione della loro condotta.
“A ciascuno il suo”: una lettura mite potrebbe limitarsi ad interpretare l’espressione come una giustizia che ricompensa chi bene si è comportato, chi il “suo” lo ha fatto e merita di tenerselo, chi ha vissuto “onestamente”. Ma è possibile anche una diversa scelta interpretativa: dare “a ciascuno il suo” può riflettersi anche nel togliere a qualcuno ciò che non si merita, nel togliere la libertà a chi ha dimostrato di non meritarla commettendo un crimine. Il massimo livello di negatività del principio “a ciascuno il suo” è traducibile con le parole di un altro principio che troviamo nel Digesto Giustinianeo e cioè “vim vi repellere licet”: alla violenza si risponde con la violenza.
Nella lingua del diritto, la violenza di chi punisce non si può chiamare violenza bensì forza. Sul piano materiale non vi è alcuna differenza qualitativa dei due tipi di violenza, ma il diritto è lì a dire il contrario qualificando come “forza” la violenza esercitata da chi detiene la “potestat puniendi”.
Al fine di dare “a ciascuno il suo”, ogni ordinamento giuridico assegna una determinata punizione al criminale in base ad una precisa tassonomia: maggiore sarà l’inimicizia e maggiora sarà l’esigenza di repressione e quindi la pena comminata. La storia del diritto conferma che il punto massimo dell’inimicizia è stato costantemente assegnato a chi, con le proprie azioni o anche solo con il proprio pensiero, minacciava il potere costituito alle sue fondamenta: si tratta di un “nemico assoluto”, irrimediabile, non rieducabile, imperdonabile: un nemico che può essere neutralizzato soltanto attraverso l’esclusione definitiva dalla società umana.
Nella storia del diritto, alla massima figura dell’inimicizia è stata costantemente associata l’immagine del pirata. Come ha affermato Carl Schmitt è infatti possibile sostenete che nel mare aperto il pirata rivolgeva le proprie intenzioni predatrici indifferentemente contro ogni potere costituito: per questa ragione si riteneva che fosse compito comune dell’umanità combattere la pirateria.
La figura dell’inimicizia assoluta sera attraversando una dilatazione senza precedenti. Le cause di questa espansione sono molte e complesse, ma hanno in comune un vettore principale: il costante processo di de-spazializzazione che segna il mondo contemporaneo.
Pirati di ieri, pirati di oggi
Se, quando pensiamo ai pirati, ci vengono in ,ente arrembaggi temerari ed enormi tesori potremmo non essere poi così delusi dalla pirateria contemporanea: la vecchia pirateria esiste ancora. Una conferma dell’attualità della pirateria marittima ci è data dalle numerose incursioni subite da bastimenti commerciali e imbarcazioni provare di ogni bandiera al largo delle coste somale o indonesiane.
La pericolosità di questi fenomeni è registrata anche dal diritto internazionale: basti pensare alla Convention on the Law of the Sea, firmata nel 1982 a Montego Bay, che all’articolo 10 definisce questo tipo di pirateria in termini di atti di violenza, rapimento e depredazione commessi in mare aperto per fini privati dall’equipaggio di una nave.
A ulteriore conferma è possibile ricordare le Policy for the Repression of Piracy and Other Criminal Acts of Violence at Sea, emanata dal presidente degli Stati Uniti Gorge Bush nel 2007.
La pirateria colpisce persone e beni che si trovano in mare aperto ma, più in generale “any other place outside the jurisdiction of any state”. La pirateria marittima è tale perché colpisce al di là di ogni giurisdizione statuale, al di là del territorio e delle acque territoriali: per questo motivo la pirateria è un crimine universale e quindi è compito di tutti reprimerla.
La Policy statunitense propone un accostamento tra la pirateria e attività come la pesca illegale, il contrabbando e infine il terrorismo: con il richiamo al terrorismo il cerchio dell’inamicizia assoluta di chiude.
Se il mare diventa di silicio
Esiste una sicura continuità della pirateria marittima ma il pirata del XXI secolo, a causa della scomparsa della chiara distinzione tra terra e mare, condivide con il terrorista l’appartenenza alla massima figura dell’inimicizia.
Esiste oggi anche un nuovo tipo di pirateria: alla pirateria marittima si affianca, da alcuni decenni, quella che viene definita “pirateria informatica”.
Ma se di “pirateria” si parla, in questo caso, non è soltanto perché “pirata” è un termine
che esprime particolare disprezzo ma poichè vi sono dei nessi individuabili partendo dalle seguenti questioni: dove agiscono? Cosa fanno? Chi sono i pirati informatici?
Dove agiscono i pirati informatici? La risposta è il world wide web: il web è una rete ma soprattutto un oceano dai contorni indefiniti. Sulla superficie è possibile fare web- surfing: in rete si naviga e i più temerari non si accontentano e cercano di esplorare le vastità sommerse della rete (deep-web) facendo web-diving.
E, ancora, la liquidità della rete è richiamata dallo streaming dei dati, dal rischio di flooding (inondazione) di server, dalla diffusione dei blog, dagli avvertimenti degli istituti di credito sul pericolo del phishing. A livello iconografico, basti aggiungere che i loghi di due dei più diffusi browser per la navigazione in Internet richiamano simboli della marineria: il timone di Netscape Navigator e la bussola di Safari.
È del tutto ovvio che la diffusione delle nuove tecnologie digitali abbia rappresentato una grande opportunità per i criminali: che cosa fa il pirata informatico?
Come abbiamo visto, la pirateria marittima è considerata la massima minaccia della
libertà dei mari e, quindi, della libertà di commercio. Un discorso non dissimile riguarda la pirateria informatica: in questa prospettiva è interessante riflettere sull’origine del termine inglese piracy.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il significato originario della parola non riguardava direttamente la pirateria marittima: il termine fu coniato nel Seicento da John Fell, vescovo di Oxfrod, che usò il termine per indicare l’attività di questi stampatori che riproducevano libri senza l’autorizzazione prevista.
Ancora prima che l’Inghilterra adottasse una specifica tutela del copyright esisteva infatti un corpus di regole sviluppate dalla comunità degli editori, stampatori e librai che riguardava i diritti di riproduzione delle opere dell’intelletto.
Il termine piracy si diffusa rapidamente, e altrettanto rapidamente si consolidò il suo significato di “copyright infringement”: questa espressione trovò conferma anche a livello giurisprudenziale.
La pirateria come attività che lede gli interessi economici connessi alla proprietà intellettuale ha conosciuto un crescendo: le tecnologie digitali hanno consentito una diffusione capillare degli atti di pirateria informatica.
Chi sono e che cosa vogliono i pirati informatici? Il pirata non merita il rango di nemico assoluto, soltanto perché agisce sul mare e lede gli interessi commerciali: sono queste le condizioni necessarie ma non sufficienti a integrare la figura suprema dell’inimicizia.
Il pirata è tale perché vuole sovvertire l’ordine costituito, vuole colpire gli interessi commerciali di chi detiene il potere: ma questo è il fine o il mezzo del suo agire? Come spiega l’etimologia greca del termine, prima di essere il predone del mare, il pirata è “colui che tenta”, che assalta in maniera rischiosa.
Non stupisce, dunque, che l’obiettivo delle legislazioni contemporanee sia soltanto in apparenza la tutela della libertà di commercio.
L’obiettivo della repressione non è tanto quello di scoraggiare le attività di infringement del diritto d’autore, quanto piuttosto quello di neutralizzare i soggetti più pericolosi, quelli che predicano il vangelo del copyleft mossi da una insofferenza assoluta verso l’assetto intellettuale della diffusione della conoscenza.
Gli interessi economici, naturalmente, contano ma qui si tratta di altro.
Per la prima volta nella storia un cittadino comune può attaccare o paralizzare il sistema informatico di uno Stato. Gli hackers sono stati così accostati ai pirati e trattati di conseguenza come soggetti estremamente pericolosi, inseriti in liste diffuse dall’Interpol a livello planetario, puniti con leggi ad hoc e pene esemplari.
L’offensiva contro i pirati è realmente globale: dagli Stati Uniti arriva fino all’Iran e Cina e Turchia naturalmente non sono da meno. Fuori concorso è la Corea del Nord, dove internet praticamente non esiste. Non si è sottratta alla caccia al pirata neppure l’Europa, naturalmente.
The Pirate Bay è una delle più importanti piattaforme P2P del mondo, i cui server erano ubicati in Svezia. Nel 2008 i tre gestori della piattaforma sono stati fortemente accusati di aver violati la normativa svedese sul copyright. Il processo si è concluso in primo e in secondo grado a un anno di prigione e 5 milioni di euro di risarcimento a favore delle società danneggiate.
Nel 2013, la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha rigettato il ricorso presentato da due dei fondatori del sito, affermando che i tribunali svedesi hanno correttamente esercitato il bilanciamento tra il diritto dei ricorrenti di ricevere e trasmettere informazioni e la necessità di proteggerete i copyright delle società.
È interessante notare che dopo la prima sentenza di condanna più di 25.000 persone abbiano aderito al Piratpartiet (il Partito Pirata svedese), che sarebbe così diventato il quarto partito più grande della Svezia, ottenendo così anche un seggio al Parlamento Europeo.
La figura del “pirata informatico” mostra così la portai ambiguità:
- da una parte, il pirata viola la legge, sottraendo beni che appartengono ad altri, con o senza l’intenzione di trarne un arricchimento personale
- Dall’altra, il pirata rivendica il ruolo di “partigiano”, di resistente contro l’industria culturale, contro la visione mercantile della scienza e dell’arte, proponendo una visione eretica della libertà di informazione e della circolazione della conoscenza. Questo secondo lato della pirateria informatica emerge non soltanto nel movimento dell’open source e del copyleft, ma anche negli atti di sabotaggio digitale e di diffusione di documenti riservati: dalla pubblicazione dei dossier sulle guerre in medio- oriente da parte di Wikileaks, fino alla diffusione dei brevetti di farmaci anti-Aids.