Alcun elemento di “uniformazione” può essere rappresentato dalla contrattazione collettiva e dalle relazioni sindacali in generale. Nel pubblico impiego, infatti, non esiste, e non è artificiosamente simulabile, un vero conflitto industriale come quello che contrappone capitale e lavoro, e neppure un generico conflitto di interessi, poiché le pubbliche amministrazioni non perseguono scopi di lucro e non esprimono una figura che possa svolgere un ruolo effettivamente equivalente a quello svolto dal datore di lavoro privato.
In particolare, più che la figura manageriale, manca il soggetto assimilabile al “proprietario” dell’impresa, che possa valutare i risultati dell’attività allo stesso modo, e con la stessa rigorosità, con cui quest’ultimo agisce, adottando prontamente le decisioni conseguenti alle proprie valutazioni. Nei confronti della pubblica amministrazione, la valutazione ultima può essere espressa soltanto mediante l’esercizio del diritto di voto da parte dei cittadini, ma è evidente che si tratta di una valutazione meno diretta e, soprattutto, condizionata anche da fatti diversi e ulteriori rispetto a quelli che hanno ad oggetto l’efficacia e l’efficienza della pubblica amministrazione.
Quindi, sin dall’avvio del processo di privatizzazione, la contrattazione collettiva è stata sottoposta a obblighi procedimentali e ad un regime di controlli, i quali sono del tutto estranei al principio di libertà che regola l’organizzazione e l’azione sindacale nel lavoro privato e sono, invece, giustificati dalla necessità di assicurare il perseguimento di interessi pubblici preminenti e, in particolare, l’obiettivo del contenimento della “spesa complessiva per il personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica”.
A questo fine, e per contrastare in particolare pratiche degenerative, è stato reso più rigoroso il sistema dei controlli, sia per quanto riguarda i contratti nazionali che quelli integrativi. Inoltre, è stato attribuito alle amministrazioni la possibilità di superare le situazioni di stallo negoziale con le organizzazioni sindacali anticipando l’erogazione degli incrementi compatibili con la situazione economico-finanziaria qualora l’accordo non sia stato raggiunto nei tempi previsti.
È stato, inoltre, previsto che la contrattazione decentrata debba essere, comunque, finalizzata ad assicurare “adeguati livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance” mediante l’utilizzo a tal fine di “una quota prevalente del trattamento accessorio comunque denominato”. Ed infine, di fronte all’incrudirsi della crisi del debito pubblico, il legislatore ha addirittura stabilito il “blocco” temporaneo dei rinnovi contrattuali, venendo ad assumere carattere durevole, sì da essere ritenuto incostituzionale, peraltro con effetto solo per il futuro, per aver sconfinato in un bilanciamento irragionevole tra la libertà sindacale e le esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, con conseguente violazione dell’articolo 39 della Costituzione.
Peraltro, l’intervento della legge sulla contrattazione collettiva non riguarda soltanto le materie che hanno diretti riflessi economici. Ed infatti, al fine di arrestare l’espansione della contrattazione collettiva sulle materie di competenza manageriale, al sindacato del settore pubblico è stato precluso di negoziare le decisioni relative all’organizzazione degli uffici e alla gestione dei rapporti di lavoro, in quanto esse devono essere assunte dai dirigenti “in via esclusiva”. Resta salva soltanto la possibilità dello “esame congiunto” (per quanto riguarda le “misure riguardanti i rapporti di lavoro”) e della “informazione” (nel caso di “determinazioni relative all’organizzazione degli uffici”).
Su altre materie, quali le sanzioni disciplinari, la valutazione delle prestazioni, la mobilità e le progressioni, poi, la legge detta una disciplina non soltanto di “cornice” ma anche di “dettaglio”, che limita notevolmente gli spazi negoziali disponibili per la contrattazione collettiva. E ciò anche perché il principio generale è che i contratti collettivi possono ora modificare le “disposizioni di legge, regolamento o statuto” dettate specificamente per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche solo qualora la derogabilità sia espressamente consentita dalla legge.
Si può, dunque, affermare che, allo stato attuale, la disciplina del lavoro pubblico rimane sensibilmente diversa da quella del lavoro privato, e che il più rilevante elemento in comune – quello della riconduzione nell’orbita del diritto privato degli atti di “microorganizzazione” e di gestione dei rapporti di lavoro – riguarda il ruolo e le modalità di esercizio unilaterale dei poteri dirigenziali, piuttosto che il ruolo e le modalità dell’esercizio dell’autonomia collettiva. Infine, per l’esigenza di garantire l’imparzialità della pubblica amministrazione anche nella scelta dei sindacati con i quali trattare, la legge detta i criteri per misurare la rappresentatività dei sindacati.
In particolare, l’ARAN, l’Agenzia alla quale è affidata la rappresentanza delle pubbliche amministrazioni per la contrattazione collettiva nazionale, ammette alle trattative le organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto (per i non dirigenti) o nell’area (per i dirigenti) “una rappresentatività non inferiore a 5 per cento, considerando a tal fine la media tra il dato associativo” (“espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito considerato”) e “il dato elettorale” (“espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato”). L’ARAN può sottoscrivere l’ipotesi di accordo alla quale abbiano aderito organizzazioni sindacali che rappresentino complessivamente almeno il 51% come media tra dato associativo e dato elettorale, oppure il 60% del dato elettorale.