Il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è costituito “da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Si tratta di una definizione che presenta un certo margine di indeterminatezza. Dal punto di vista testuale, si può rilevare la differenza che distingue la definizione del giustificato motivo soggettivo, ove l’inadempimento degli obblighi contrattuali è qualificato con un aggettivo pregno di significato, dalla definizione del giustificato motivo oggettivo, ove le “ragioni” oggettive non sono ulteriormente specificate da alcun aggettivo diretto a circoscriverne la rilevanza.
Sulla base di una interpretazione basata sul bilanciamento dei principi costituzionali della libertà di iniziativa economica e del diritto al lavoro, la giurisprudenza ha accolto la tesi che anche il giustificato motivo oggettivo di licenziamento costituisca una extrema ratio. E ciò, coerentemente, sia nel caso in cui le ragioni oggettive attengono direttamente a vicende dell’impresa, sia nel caso in cui tali ragioni (pur incidendo sulla “attività produttiva”, sulla “organizzazione del lavoro” e sul “regolare funzionamento” di quest’ultima) attengono direttamente alla persona del lavoratore.
Per quanto riguarda le ragioni attinenti l’impresa, l’ipotesi tipica, ma non esclusiva, di giustificato motivo oggettivo è costituita dalla soppressione del posto di lavoro. Al riguardo, la giurisprudenza riconosce che la scelta del datore di lavoro di procedere a tale soppressione costituisce insindacabile esercizio della libertà di organizzare l’impresa, garantita dall’articolo 41 della Costituzione. Si precisa, però, che il giudice deve controllare l’effettività di tale scelta, ossia verificare che la soppressione non sia fittizia e simulata, nonché la sussistenza del nesso di causalità tra la scelta stessa ed il licenziamento intimato.
Infine, si afferma che, ai fini della configurabilità del giustificato motivo oggettivo, essendo il licenziamento l’extrema ratio, è necessario che il datore di lavoro fornisca la prova anche dell’impossibilità del cd. repechage, ossia di impiegare proficuamente il lavoratore addetto al posto soppresso in altre mansioni disponibili in azienda. Tuttavia, nonostante l’affermata insindacabilità delle scelte imprenditoriali, accade spesso che il controllo giudiziale finisca con l’estendersi anche al motivo che ha determinato la scelta della soppressione del posto di lavoro.
In alcuni casi, la scelta imprenditoriale viene valutata anche sotto il profilo del “merito”, sindacandone la ragionevolezza o l’opportunità . Tali indirizzi applicativi non possono essere condivisi, poiché confondono la ragione oggettiva che è alla base del licenziamento con il motivo che ha ispirato la scelta dell’imprenditore. Il controllo giudiziale può e deve riguardare la ragione oggettiva, non il motivo della scelta, poiché quest’ultimo rientra nell’ambito di valutazioni tipiche dell’imprenditore e non è suscettibile di un sindacato esterno di merito e di razionalità .
Al fine di evitare erronei indirizzi applicativi, tali principi sono stati recepiti ed espressi in modo esplicito dal legislatore. Si ha la sensazione che il legislatore abbia ritenuto che l’applicazione giurisprudenziale del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non abbia realizzato un equilibrato contemperamento tra esigenze dell’impresa e interessi dei lavoratori. Sensazione avvalorata dal fatto che, nei due recenti interventi di riforma delle tutele contro i licenziamenti illegittimi, le modifiche più rilevanti hanno riguardato proprio la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, eliminando del tutto la possibilità che dalla accertata insussistenza di tale giustificato motivo possa derivare la reintegrazione nel posto di lavoro.