La giusta causa, nel contratto di lavoro a tempo determinato, consente il licenziamento prima della scadenza del termine, e, nel contratto a tempo indeterminato, consente il licenziamento con efficacia immediata, senza obbligo di preavviso. La nozione legale (“causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”) rappresenta un concetto indeterminato, da alcuni ricondotto nella categoria delle “clausole generali” e da altri in quella delle norme “aperte” od “elastiche”.

Si tratta, in ogni caso, di una nozione che rimanda volutamente ad un variabile contenuto assiologico, allo scopo di consentire l’adeguamento della nozione stessa alla realtà, che è articolata e mutevole nel tempo. Pertanto, il contenuto della nozione deve essere necessariamente specificato in sede interpretativa, per mezzo di standard valutativi che tengono conto dell’evoluzione della coscienza sociale. Anche a ragione di ciò, vi è un notevole contrasto di opinioni sul problema di come individuare le tipologie di fatti idonei a configurare la giusta causa e sull’ulteriore problema, collegato al primo, di come distinguere la nozione di giusta causa da quella di giustificato motivo. I

n linea di principio, è ricorrente l’affermazione che la giusta causa di licenziamento è quella che riveste il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario. Ma anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, nell’interpretazione che ne ha dato la giurisprudenza, costituisce una extrema ratio, nel senso che è considerato legittimo soltanto quando l’inadempimento del lavoratore sia di gravità tale da compromettere irreparabilmente il rapporto fiduciario.

Opinione diffusa, inoltre, è che elemento costitutivo della giusta causa sia l’immediatezza della comunicazione di recesso rispetto al momento in cui il datore di lavoro è venuto a conoscenza del fatto posto a giustificazione del licenziamento. Ciò perché il decorso di un lasso di tempo, che non sia giustificato dalla necessità di svolgere indagini e dalla complessità della organizzazione aziendale, è logicamente incompatibile con la situazione di impossibilità di prosecuzione provvisoria del rapporto di lavoro.

Anche il licenziamento per giustificato motivo soggettivo, tuttavia, deve essere caratterizzato, come è tipico di tutte le sanzioni disciplinari, dal requisito della immediatezza, sia pure da valutare in modo meno rigoroso rispetto all’ipotesi della giusta causa. Ciò posto, un punto di partenza utile per risolvere i problemi evidenziati è quello di tenere presente che, in base ad esplicita previsione di legge, non costituiscono giusta causa di licenziamento fattispecie gravissime di crisi di impresa, quali il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa.

Si deve, quindi, ritenere che la ratio legis sia quella di escludere dalla nozione di giusta causa i fatti riguardanti l’impresa, i quali devono essere ricondotti, sussistendone i presupposti, nel giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Al più, secondo una dottrina, potrebbero rientrare nella giusta causa ipotesi eccezionali di impossibilità assoluta di prosecuzione del rapporto di lavoro, quali quelle riconducibili al factum principis (ad esempio, la requisizione dell’azienda) o al caso fortuito e alla forza maggiore (ad esempio, la distruzione dell’azienda per eventi naturali), ipotesi, cioè, che, pur non essendo riferibili alla persona del lavoratore, non sono riconducibili neppure alla volontà o a fatti dell’imprenditore. Si può allora affermare che, salvo ipotesi del tutto eccezionali, la giusta causa riguarda fatti riconducibili alla persona del lavoratore, e, in particolare, gli inadempimenti a lui imputabili.

Di conseguenza, è possibile affermare anche che la giusta causa, configurata da inadempimenti del lavoratore, si distingue per la maggiore gravità che tali inadempimenti rivestono rispetto a quelli che rientrano nella nozione di giustificato motivo soggettivo. In altri termini, se il giustificato motivo soggettivo è costituito da un “notevole inadempimento degli obblighi contrattuali”, la giusta causa è costituita da un inadempimento più che notevole, ossia grave.

L’inadempimento deve riguardare gli obblighi derivanti dal contratto di lavoro, ossia l’obbligo di eseguire la prestazione lavorativa con la diligenza dovuta, osservando le direttive impartite dal datore di lavoro, nonché l’obbligo di fedeltà. La responsabilità per l’inadempimento non è oggettiva, ma presuppone il dolo, costituito dalla volontà di non adempiere, o la colpa, che è da intendere in senso oggettivo, ed è costituita da negligenza, imprudenza o imperizia.

Resta un problema ulteriore, ed ancora più complesso, che è quello di sapere se, ai fini della giusta causa, possono avere rilievo esclusivamente i fatti che configurano un inadempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali o se possono avere rilievo anche fatti che, pur riguardando la persona del lavoratore, sono riferiti alla sua vita privata, essendo posti in essere al di fuori del luogo e dell’orario di lavoro. Secondo una tesi, questa seconda tipologia di fatti non configurerebbe un inadempimento, ma potrebbe costituire, comunque, giusta causa di licenziamento.

Per pervenire a tale conclusione, si sostiene che la nozione di giusta causa ricomprenderebbe anche le situazioni di sopravvenuta inidoneità del lavoratore allo svolgimento delle mansioni che sia determinata dal venire meno delle qualità morali e di immagine richieste per la proficua prosecuzione del rapporto di lavoro. Tale tesi, però, non appare del tutto convincente, perché i casi di sopravvenuta inidoneità della prestazione dovuta a ragioni fisiche o tecniche non configurano giusta causa di licenziamento, bensì soltanto un giustificato motivo oggettivo.

Di conseguenza, il fatto che i casi di sopravvenuta inidoneità della prestazione dovuta a ragioni morali o di immagine possa dar luogo alla più severa conseguenza del licenziamento per giusta causa non può trovare logica spiegazione se non riconoscendo che la giusta causa sia connotata non da ragioni oggettive, bensì da un inadempimento agli obblighi contrattuali. In tale senso, peraltro, pare essersi assestata anche l’elaborazione giurisprudenziale.

Con ciò non si intende negare che i comportamenti tenuti nella vita privata dal lavoratore non possano avere un rilievo anche oggettivo; tale ipotesi, però, tende a coincidere con i casi di sopravvenuta inidoneità professionale derivante da ragioni fisiche o tecniche, e quindi appare più direttamente riconducibile nella nozione e nella disciplina del giustificato motivo oggettivo. Resta fermo che i comportamenti tenuti dal lavoratore al di fuori del luogo e dell’orario di lavoro possono configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, soltanto ove costituiscano grave o notevole inadempimento agli obblighi derivanti dal contratto di lavoro.

Tali obblighi, e in particolare l’obbligo di fedeltà, implicano, in relazione alla particolare natura del rapporto di lavoro e delle mansioni svolte, il dovere di mantenere una determinata condotta anche nella vita privata e di astenersi da azioni che possono pregiudicare la fiducia del datore di lavoro sulla correttezza delle future prestazioni. A questo ultimo riguardo, si deve aggiungere che la valutazione della gravità dell’inadempimento deve essere sempre effettuata tenendo conto di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi che caratterizzano la fattispecie concreta, quali l’intensità della fiducia richiesta dalle mansioni svolte, il grado di affidamento che queste implicano, l’intenzionalità dell’inadempimento, l’esistenza o no di conseguenze dannose. Soltanto alla luce di una valutazione complessiva di tali elementi, è possibile accertare l’effettiva idoneità dell’inadempimento a ledere il vincolo fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro, o, in altri termini, a far venire meno la fiducia del datore di lavoro circa la correttezza delle future prestazioni.

In ogni caso, il giudice, quando accerti che l’inadempimento, pur non costituendo giusta causa, configuri il giustificato motivo, può convertire, anche di ufficio, il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo, con la conseguente conservazione dell’efficacia estintiva del recesso già comunicato e la condanna del datore di lavoro al pagamento della indennità sostitutiva del preavviso.

 

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