La disciplina del Codice civile è chiaramente tributaria dei principi della libertà contrattuale e della eguaglianza formale delle parti, poiché mette sullo stesso piano e regola allo stesso modo, il recesso del datore di lavoro e quello del lavoratore. Ciò appare evidente, in particolare, nella previsione della facoltà di recesso ad nutum, poiché essa non tiene conto delle ben diverse conseguenze che la cessazione del rapporto comporta per il datore di lavoro (posto soltanto di fronte al problema di una eventuale esigenza di sostituzione) e per il lavoratore (posto, invece, di fronte alla perdita della fonte di sostentamento ed alle difficoltà della ricerca di una nuova occupazione).
Il legislatore ha, però, preso atto della inadeguatezza della prospettiva codicistica e della necessità di apprestare una disciplina differenziata del recesso, volta a limitare il potere di licenziamento. È stata così dettata una disciplina speciale “in materia di licenziamenti individuali”. Con tale disciplina, in particolare, è stato introdotto l’obbligo della giustificazione causale del licenziamento e un primo, specifico regime di tutele per il lavoratore illegittimamente licenziato. La successiva evoluzione della legge, però, non ha avuto un percorso lineare.
L’obbligo della giustificazione causale del licenziamento è stato reso di portata generale ad opera della legge 108 del 1990, che ha, così, realizzato una fondamentale esigenza di estensione della protezione nei confronti di tutti i lavoratori. Pertanto, sono oramai eccezionali i casi nei quali opera ancora il principio della libera recedibilità. Infine, e sia pur tardivamente, è stata regolata anche la fattispecie dei licenziamenti collettivi.
Per quanto riguarda, invece, i rimedi applicabili in caso di licenziamento illegittimo, dopo l’iniziale previsione di una tutela esclusivamente economica, è stata introdotta una tutela forte, cosiddetta reale, rappresentata dalla reintegrazione nel posto di lavoro. Tale forma di tutela, però, ha suscitato dubbi crescenti sulla positività degli effetti prodotti, sino a determinare due successivi interventi diretti a ridimensionare il suo campo di applicazione e riproporre la tutela di natura economica. Rimane, invece, un principio cardine dell’ordinamento la tutela reale contro i licenziamenti nulli.
La disciplina che limita il potere di licenziamento non trova applicazione in casi eccezionali, che sono individuati dal legislatore in relazione alla particolare natura del rapporto di lavoro o alle condizioni del lavoratore. Precisamente, sono esclusi dall’applicazione dei limiti legali: i lavoratori domestici, i lavoratori che hanno maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia, sia contributivi che di età; gli sportivi professionisti, i lavoratori in prova e i dirigenti.
Per i lavoratori domestici e per i dirigenti, è però espressamente prevista l’applicazione del divieto di licenziamento discriminatorio. Alla medesima conclusione dovrebbe pervenirsi, in via interpretativa, anche per le altre categorie di lavoratori, posto che il recesso, ancorché libero, è sempre nullo ove sia determinato da ragioni discriminatorie. Ai dirigenti, inoltre, è stato esteso l’obbligo della comunicazione in forma scritta del licenziamento.
A lungo, è stato ritenuto che la volontà del lavoratore di porre termine al rapporto di lavoro, sia unilateralmente (con le dimissioni) che consensualmente (con un accordo di risoluzione), non dovesse essere sottoposta ad alcuna limitazione. L’esperienza ha, però, evidenziato la diffusione di comportamenti illeciti da parte del datore di lavoro, diretti a manipolare ed estorcere la volontà del lavoratore. Al fine di evitare questo fenomeno, sono state introdotte apposite procedure volte a garantire che l’atto di risoluzione del rapporto di lavoro sia frutto della libera volontà del lavoratore.
In particolare, l’efficacia delle dimissioni e della risoluzione consensuale è stata subordinata alla condizione sospensiva di una “convalida”, o, in alternativa, al rispetto di altri oneri, risultati però complessi o poco funzionali allo scopo perseguito. Pertanto, in luogo di tale procedura, è stato ora previsto, sempre a pena di inefficacia, che le dimissioni e la risoluzione consensuale possono avvenire esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro.
Inoltre, con disposizione di carattere eccezionale, viene riconosciuta al lavoratore la facoltà di revocare, entro 7 giorni, le dimissioni o il consenso prestato all’accordo di risoluzione. L’obbligo di osservare tali modalità, e il diritto di revoca, non trovano applicazione nel rapporto di lavoro domestico, né nelle ipotesi in cui le dimissioni e l’accordo di risoluzione consensuale siano stati sottoscritti nelle sedi protette di cui al quarto comma dell’articolo 2113 del Codice Civile o davanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 276 del 2003. Resta ferma, infine, la speciale procedura di convalida delle dimissioni e dell’accordo di risoluzione consensuale prevista per la lavoratrice madre e per il lavoratore padre durante il periodo di gravidanza e durante i primi tre anni di vita del bambino.