Il rapporto di lavoro può cessare per diverse cause: la morte del lavoratore, in quanto l’obbligazione di lavoro ha natura personale; la scadenza del termine nel caso di contratto di lavoro a tempo determinato; l’accordo delle parti che, così come costituisce il rapporto, lo può estinguere; il recesso di una delle parti (ossia, le dimissioni da parte del lavoratore, e il licenziamento da parte del datore di lavoro); altre particolari ipotesi previste da disposizioni di legge.

Sono, inoltre, ammissibili, anche se infrequenti, le azioni volte a far dichiarare la nullità del contratto di lavoro o ad ottenerne l’annullamento. Secondo l’opinione prevalente, invece, non trovano applicazione le regole generali in materia di risoluzione del contratto per inadempimento, impossibilità sopravvenuta e eccessiva onerosità, in quanto assorbite dalle disposizioni speciali che regolano e limitano il potere di recesso, in particolare quello del datore di lavoro. L’attenzione deve essere concentrata proprio sulla fattispecie del recesso, sia per la specialità della disciplina che lo regola, sia per la rilevanza che tale disciplina esercita nel determinare gli equilibri che intercorrono tra le parti nel rapporto di lavoro.

Il Codice Civile prevede due tipi di recesso. Il primo può essere esercitato liberamente, nel caso in cui il rapporto di lavoro sia a tempo indeterminato, e comporta il solo obbligo di dare il preavviso alla parte che subisce il recesso (cd. recesso ordinario, o ad nutum). Il secondo è, invece, il recesso motivato da una “giusta causa”, ossia da una causa “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (cd. recesso straordinario, o in tronco).

Esso determina la interruzione immediata, senza obbligo di dare preavviso, sia nel caso di rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sia nel caso di rapporto di lavoro a termine. Pertanto, le differenze connesse ai due tipi di recesso sono: a) nel caso di contratto a tempo determinato, il recesso prima della scadenza del termine può avvenire soltanto per una giusta causa; c) in mancanza di giusta causa, l’efficacia del recesso, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, è differita al momento della scadenza del periodo di preavviso.

La durata del periodo di preavviso è stabilita, di norma, dai contratti collettivi in misura differenziata a seconda della categoria contrattuale, della qualifica del lavoratore e della sua anzianità di servizio. A tutela del lavoratore, la disciplina codicistica prevede che il periodo di preavviso non può essere computato nelle ferie. Ove il lavoratore si trovi in stato di malattia al momento della comunicazione del licenziamento con preavviso, il licenziamento è temporaneamente inefficace e, quindi, il periodo di preavviso non inizia a decorrere (diversamente dal licenziamento per giusta causa che è, per sua natura, immediatamente efficace anche durante la malattia).

Nel caso in cui la parte recedente non dia il preavviso dovuto, è tenuta verso l’altra parte a corrispondere una indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso che, in tutto o in parte, non sia stato rispettato. È da ritenere che tale disposizione preveda una obbligazione alternativa, la quale consente alla parte recedente di scegliere se dare preavviso (differendo l’efficacia del recesso al termine del preavviso stesso), ovvero corrispondere l’indennità “equivalente”, idonea a determinare la estinzione immediata del rapporto di lavoro (anche laddove il lavoratore manifesti la volontà di svolgere la sua prestazione durante il periodo di preavviso).

L’indennità sostitutiva del preavviso è, in ogni caso, dovuta dal datore di lavoro, pur non essendo la parte recedente, quando il rapporto di lavoro cessi a causa della morte del lavoratore o a causa delle dimissioni del lavoratore motivate da una giusta causa.

 

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