Non esiste un principio generale che obblighi il datore di lavoro alla parità di trattamento dei propri dipendenti. Specifiche disposizioni di legge, però, prevedono ipotesi nelle quali la parità è dovuta (e anche promossa con azioni positive), e le differenziazioni di trattamento sono vietate. Anche la tutela contro le discriminazioni risponde all’esigenza di salvaguardare i diritti fondamentali della persona, in particolare quello della dignità.

Il diritto antidiscriminatorio ha ricevuto espansione e rafforzamento pure nel nuovo corso del diritto del lavoro, come naturale compensazione della contestuale revisione delle tutele di carattere più tradizionale. La Costituzione riconosce il diritto alla parità di retribuzione, “a parità di lavoro”, sia alle donne, che ai minori. La legge 300 del 1970 ha sancito la nullità di qualsiasi patto od atto diretto a fini di discriminazione per motivi sindacali. La stessa previsione è stata, poi, estesa alle ipotesi di discriminazione per motivi legati al sesso, alla politica, alla religione, alla razza e alla lingua.

Il legislatore, poi, ha dettato una disciplina delle azioni positive per la realizzazione delle pari opportunità tra uomo e donna. Infine, un nuovo sviluppo è stato offerto dalla disciplina comunitaria, in attuazione della quale sono stati emanati i decreti legislativi 215 e 216, riguardanti, rispettivamente, “la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine tecnica” e “la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro”.

Particolare rilievo ha la disciplina diretta a contrastare ogni discriminazione basata sul sesso e perseguire l’obiettivo della parità di trattamento e di opportunità tra uomini e donne. La definizione delle discriminazioni vietate è assai ampia. Essa tiene conto, anzitutto, del fatto che la discriminazione può essere realizzata con qualsiasi strumento, in quanto può essere l’effetto di “qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento”, nonché “dell’ordine di porre in essere un atto o un comportamento”. La discriminazione inoltre, può essere sia diretta che indiretta.

È diretta quando lo strumento utilizzato produce di per sé un “effetto pregiudizievole” e, comunque, un “trattamento meno favorevole” in ragione del sesso. Si realizza, invece, una discriminazione indiretta quando lo strumento utilizzato pone o può porre i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso. Viene, però, precisato che non si ha discriminazione quando la posizione di svantaggio sia determinata dalla previsione di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, al fine di perseguire un obiettivo legittimo, sempreché i mezzi impiegati siano appropriati e necessari.

Il legislatore, poi, ha esplicitamente ricompreso tra le discriminazioni: i trattamenti meno favorevoli applicati in ragione dello stato di gravidanza, di maternità e paternità (anche adottive), o in ragione dei diritti riconosciuti ad ognuno di tali stati; le molestie (“comportamenti indesiderati posti in essere per ragioni connesse al sesso”) e le molestie sessuali (“comportamenti indesiderati a connotazione sessuale”), che hanno lo scopo o, comunque, l’effetto di violare la dignità della persona e di creare un “clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.

L’ambito del divieto di discriminazione riguarda, in particolare, l’accesso al lavoro, la formazione e la promozione professionali, nonché le condizioni di lavoro. Inoltre, nelle attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, è consentito condizionare l’assunzione all’appartenenza ad un determinato sesso “quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione”. Specifici divieti di discriminazione sono previsti per quanto riguarda la retribuzione, l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione di carriera, l’accesso alle prestazioni previdenziali pubbliche, alle forme pensionistiche complementari collettive ed agli impieghi pubblici.

La disciplina di legge mira a realizzare condizioni di eguaglianza sostanziale mediante la promozione di pari opportunità per le donne lavoratrici, al fine di superare le situazioni di svantaggio derivanti non da ostacoli giuridici (di per sé illeciti), bensì da condizionamenti strutturali e culturali. A tal fine, sono previste azioni positive (quali la promozione di orari di lavoro flessibili, corsi di formazione per sole donne, asili nido sovvenzionati), ossia di misure rivolte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità, con l’obiettivo di “favorire l’occupazione femminile e realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne”.

Tale obiettivo, inoltre, è perseguito anche con il sostegno di apposite istituzioni, individuate nel “Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici”, istituito presso il Ministero del lavoro, nonché le “consigliere e i consiglieri di parità” nominati a livello nazionale, regionale e provinciale. A tali istituzioni è riconosciuta, altresì, la legittimazione ad agire, sia in via ordinaria che con uno speciale procedimento di urgenza, contro le discriminazioni che abbiano una rilevanza collettiva. Un analogo procedimento di urgenza può essere proposto, inoltre, con ricorso individuale da parte del lavoratore leso dalla discriminazione.

Secondo i principi generali, l’onere della prova della discriminazione ricade su chi ricorre in giudizio, ma l’assolvimento di tale onere è agevolato prevedendo che anche “dati di carattere statistico”, purché precisi e concordanti, sono idonei a fondare la presunzione dell’esistenza di atti, fatti o comportamenti discriminatori. Tale presunzione può essere superata solo dalla prova contraria eventualmente fornita dal datore di lavoro.

 

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