Un ulteriore rilievo alla autonomia individuale è stato riconosciuto dalla legge quando la volontà delle parti sia certificata o assistita mediante apposite procedure svolte nelle sedi abilitate. La procedura di certificazione è stata inizialmente prevista al fine di ridurre il contenzioso che può sorgere in ordine alla qualificazione del contratto ed agli effetti che ne derivano. Con tale procedura le parti possono ottenere la certificazione “dei contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro”, e ciò anche nel caso in cui si tratti di “contratti in corso di esecuzione”.
La medesima procedura può essere utilizzata anche al fine di certificare il regolamento interno delle cooperative riguardante i rapporti di lavoro con i soci lavoratori e il contratto di appalto di opere o servizi. L’accertamento operato dalle commissioni abilitate alla certificazione può produrre, a richiesta delle parti, sia effetti civili, sia “effetti amministrativi, previdenziali o fiscali” e, quindi, vincolare non solo le parti, ma anche i terzi.
Tuttavia, poiché l’atto di certificazione implica un’attività valutativa, esso può essere impugnato non solo dinanzi al tribunale amministrativo regionale “per violazione del procedimento o per eccesso di potere”, ma anche dinanzi al giudice del lavoro “per erronea qualificazione del contratto”, oltreché per “difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”, o “per vizi del consenso” in ordine al contratto certificato.
L’impugnazione, però, deve essere obbligatoriamente preceduta da un tentativo di conciliazione, diversamente da tutte le altre controversie di lavoro in relazione alle quali il tentativo di conciliazione è stato reso facoltativo. Inoltre, nel giudizio di impugnazione, il comportamento tenuto dalle parti durante la procedura di certificazione “potrà essere valutato” dal giudice del lavoro ai fini della definizione delle spese del giudizio o di una eventuale condanna per responsabilità aggravata, ai sensi dell’articolo 96 del Codice di procedura civile.
La legge prevede, altresì, che le commissioni di certificazione, in alcuni casi, possono svolgere funzioni di assistenza della volontà delle parti anche nella definizione della disciplina applicabile al rapporto di lavoro da esse instaurato. Infatti, la certificazione può avere ad oggetto non soltanto la scelta del contratto e le clausole di esso che rilevano ai fini qualificatori, ma ogni altra clausola relativa al trattamento economico e normativo che non abbia ad oggetto “diritti indisponibili”.
Anche sotto questo profilo, l’atto certificatorio sarebbe sottoposto al controllo giurisdizionale, poiché l’individuazione dei diritti indisponibili è oggetto di un’attività interpretativa che, in caso di controversia, compete al giudice. La certificazione può, altresì, riguardare clausole dei contratti individuali che prevedono ipotesi tipiche di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, o “elementi” e “parametri” di determinazione della indennità prevista per il licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo.
Ma gli effetti della certificazione di tali clausole non sono ben definiti, perché, in caso di controversia, è previsto soltanto che di esse “il giudice tiene conto”. Infine, mediante la certificazione (richiesta “a pena di nullità ”), le parti possono concordare, nel corso del rapporto di lavoro, una clausola compromissoria volta a deferire alla decisione di arbitri le controversie che possono sorgere.
La pattuizione di tale tipologia di clausola implica l’esercizio di un rilevante potere dispositivo da parte del lavoratore e, quindi, il legislatore espressamente stabilisce che le commissioni di certificazione devono accertare “la effettiva volontà delle parti” e che il lavoratore ha diritto di farsi assistere da un legale di fiducia o da un rappresentante “sindacale o professionale”.