Una speciale ipotesi di lavoro partecipativo, in senso lato a titolo oneroso, che ricorre sempre che non sia stipulato un apposito contratto di lavoro subordinato o autonomo, è il lavoro familiare regolato dall’art. 230 bis cc, con riferimento, come si diceva, alla famiglia basata sul matrimonio. I lavoratori familiari sono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo che svolgono la loro prestazione di lavoro, anche sotto la direzione di altro familiare, nella comunità familiare o nell’impresa familiare.
L’impresa familiare è quella gestita da uno dei due coniugi o da entrambi i coniugi che esercitino l’impresa in regime di comunione legale dei beni, non è cmq impresa familiare quella, ad esempio, tra due fratelli, che non rappresentano un nucleo familiare.
I diritti patrimoniali dei lavoratori. Ai lavoratori familiari è riconosciuto il diritto al mantenimento, che si distingue dall’assistenza familiare secondo la condizione economica della famiglia. Se esiste l’impresa familiare, ai lavoratori della comunità o dell’impresa è riconosciuta anche la partecipazione agli utili, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro.
Inoltre, ai prestatori di lavoro familiare spetta il diritto di codecisione, di partecipazione, cioè alle fondamentali scelte relative alla gestione dell’impresa (l’impiego degli utili e degli incrementi, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e l’indirizzo dell’impresa). Il diritto di codecisione presenta rilevanza anche esterna, nel senso che un contratto d’impresa che sia stipulato senza la preventiva consultazione, deve ritenersi che sia inefficace, a meno che l’interessato non dimostri che l’imprenditore, al momento della conclusione del contratto, aveva dolosamente occultato la natura familiare dell’impresa, tradendo la buona fede del terzo.
Associazione in compartecipazione con apporto di lavoro
Contratto commutativo ed aleatorio. Altro contratto di partecipazione è quello dell’associazione in compartecipazione con apporto di lavoro per la gestione dell’affare o dell’impresa dell’associante (art. 2549 cc.). Il contratto comporta l’obbligo dell’associante di ammettere l’associato alla partecipazione agli utili, assumendo così natura di contratto commutativo con scambio di apporto. Il contratto presenta anche la natura aleatoria, in quanto in mancanza degli utili l’associato conferirebbe l’apporto – nel lavoro subordinato lo svolgimento del lavoro – senza alcun corrispettivo. Se le parti stabilissero non soltanto la partecipazione agli utili, ma anche alla gestione dell’affare o dell’impresa, si profilerebbe l’ipotesi di un contratto non commutativo, ma associativo o con comunione di scopo.
Proprio al fine di garantire gli utili e di escludere le perdite è previsto un particolare potere di controllo dell’associato nei confronti dell’ associante che l’obbligo di gestire impresa con una specifica diligenza.
Poiché il lavoratore che deduce la propria prestazione di lavoro subordinato nel contratto di associazione non riceve tutta la tutela collegata con il contratto di lavoro subordinato, occorre verificare se il prestatore abbia un interesse alla stipulazione del contratto di associazione. Un tale interesse potrebbe esservi, per i lavoratori con alta qualifica, quando sia prevista la partecipazione anche alla gestione dell’affare o dell’impresa, con i vantaggi collegati; oppure per un lavoratore che si trovi in una situazione d’incompatibilità di stipulazione di un contratto di lavoro subordinato (ad esempio un insegnante di scuola pubblica che assume un impegno d’insegnamento anche in una scuola privata).
In mancanza di interesse si potrebbe ritenere si tratti di simulazione, che dietro il contratto di associazione in compartecipazione si nasconda, come contratto dissimulato, quello di lavoro subordinato.
In giurisprudenza si è comunque tentato d’individuare i criteri distintivi tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa. La riconducibilità del rapporto esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza degli elementi che caratterizzano i due contratti; occorre considerare soprattutto che mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio d’impresa, il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive e istruzioni al cointeressato.