La materia dell’intermediazione era disciplinata dalla L. 23 ottobre 1960, n. 1369 che poneva il divieto di intermediazione ed interposiziozione personale nel contratto di lavoro: “è vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, “l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro” mediante l’impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono”.
In sostanza la norma vietava la fornitura di manodopera.
In conclusione, tutte le fattispecie previste ed esplicitamente vietate dall’art. 1 della L. n. 1369 erano riconducibili o alla cosiddetta somministrazione di lavoro altrui o al cosiddetto pseudo – appalto.
Nel pseudo – appalto si era in presenza di una fornitura al committente, da parte dell’appaltatore, di “mere prestazioni di lavoro”, mentre non esisteva né un’organizzazione propria di quest’ultimo, né una gestione di impresa a proprio rischio.
La sanzione (civile e penale) prevista era severa: i prestatori di lavoro occupati in violazione dei divieti posti dalla legge erano considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente avesse utilizzato la loro prestazione.
Il legislatore aveva inteso evitare che questo tipo di contratto fosse utilizzato per eludere norme poste a tutela del lavoratore.
La legge n. 1369 aveva anche posto una distinzione tra gli appalti esterni, regolati dal diritto comune, e gli appalti interni che, svolgendosi all’interno dell’azienda, erano sottoposti ad una particolare disciplina protettiva dei dipendenti dell’appaltatore.
Per quanto riguarda gli appalti interni, l’art. 3 della L. n. 1369 disponeva una responsabilità solidale tra appaltante ed appaltatore, (che si prolungava fino ad un anno dopo la cessazione dell’appalto) nei confronti dei lavoratori dipendenti da quest’ultimo. Era evidente, peraltro, che nell’imporre siffatta responsabilità solidale, il legislatore ha perseguito l’obiettivo di estendere ai dipendenti delle imprese appaltatrici i trattamenti più favorevoli previsti dai contratti collettivi applicati nell’impresa committente (c.d. uniformità di trattamento).
Negli anni ’90 il divieto posto dalla L. 1369 era stato ritenuto troppo rigido, anche in considerazione del fatto che in Europa era da tempo permessa la somministrazione di manodopera direttamente assunta da agenzie specializzate.
Per tale motivo nel 1997 la L. 196 aveva introdotto anche in Italia l’istituto del lavoro interinale (chiamato anche fornitura di lavoro temporaneo), presente già in Europa, che consisteva nella relazione a tre in base alla quale un agenzia intermediatrice (o impresa fornitrice) inviava temporaneamente un lavoratore da essa stessa assunto presso un terzo (utilizzatore), per effettuare una prestazione di lavoro a disposizione di quest’ultimo.
Questa relazione era articolata su due contratti: uno tra agenzia e utilizzatore ed un altro tra agenzia e singolo lavoratore.
La legge 196 imponeva per il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, la forma scritta e particolari elementi del contenuto dell’atto (mansioni, durata, trattamento economico e normativo spettante).
Il contratto di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo era in collegamento necessario con il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, di cui costituiva il presupposto causale. Il legislatore prevedeva che il contratto fosse stipulato in forma scritta ed inviato, in copia, alla Direzione provinciale del lavoro competente per territorio, entro 10 giorni dalla stipulazione.
Il contratto di fornitura doveva contenere una serie di dati o elementi identificativi, tra cui gli estremi dell’autorizzazione dell’impresa fornitrice, il numero dei lavoratori richiesti.
In esso dovevano essere apposte clausole che ponevano, a carico dell’impresa fornitrice, l’obbligo del pagamento diretto al lavoratore delle retribuzioni; ed a carico dell’utilizzatore l’obbligo di comunicare all’impresa fornitrice i trattamenti retributivi e previdenziali applicabili, di rimborsare alla stessa gli oneri retributivi e previdenziali da questa sostenuti.
In forza del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo il lavoratore si obbligava a svolgere la propria attività durante il periodo di assegnazione presso l’impresa utilizzatrice, nell’interesse e sotto la direzione e il controllo di quest’ultima. All’impresa utilizzatrice la legge riconosceva anche lo ius variandi, con la possibilità di adibire il lavoratore temporaneo a mansioni superiori rispetto a quelle per le quali era stata disposta l’assegnazione dall’impresa fornitrice.
L’obbligazione retributiva restava a carico dell’impresa fornitrice, secondo le condizioni previste nel contratto di fornitura. Tuttavia, al fine di evitare forme di sottosalariato, al prestatore di lavoro temporaneo competeva un trattamento non inferiore a quello riconosciuto ai dipendenti di pari livello dell’impresa utilizzatrice. Nonostante questi obblighi retributivi gravassero direttamente in capo al fornitore, l’impresa utilizzatrice era comunque chiamata a risponderne in via solidale in caso di inadempimento della prima, anche oltre l’entità della garanzia prestata dal primo.
La legge disponeva che il periodo di assegnazione presso l’impresa utilizzatrice potesse essere prorogato con il consenso del lavoratore e mediante atto scritto; ed il lavoratore interinale aveva diritto di prestare l’attività per l’intero periodo di assegnazione eccetto il caso di mancato superamento della prova o di giusta causa di recesso.
L’impresa fornitrice era investita, nei confronti dei prestatori di lavoro temporaneo, degli obblighi di informazione sui rischi per la sicurezza e la salute nonché di quello di addestrare i lavoratori all’uso delle attrezzature necessarie per lo svolgimento della specifica attività lavorativa per la quale sono stati assunti.
La disciplina del 1997 era molto rigida sia con l’esercizio dell’attività della fornitura, sia per il ricorso al lavoro interinale. L’attività di fornitura era consentita solo ai soggetti autorizzati dal Ministero del lavoro, dopo accurato accertamento del possesso di numerosi requisiti (agenzie costituite come società di capitali o società cooperative con oggetto sociale esclusivo e limitato all’attività di fornitura). Il ricorso al lavoro interinale, invece, era consentito solo per esigenze temporanee dell’utilizzatore, del resto determinate dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati più rappresentativi.
In sostanza si può dire che il lavoro interinale si collocava in una posizione di eccezione, o di deroga, rispetto al generale divieto di interposizione nell’esecuzione delle mere prestazioni di lavoro sancito dall’art. 1 della L. 1369.