La composizione delle controversie individuali di lavoro è prevista in forma giudiziale, ma anche stragiudiziale.
La conciliazione e l’arbitrato cono collegati a rinunzie e transazioni e sono finalizzate all’autocomposizione della lite.
La conciliazione
La conciliazione giudiziale avviene su iniziativa del giudice, quella stragiudiziale in sede sindacale (contratti collettivi) o amministrativa (di fronte ad apposite commissioni presso le Direzioni provinciali del Lavoro).
Fino ad epoca recente la legge non prevedeva l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione: l’art. 5 della legge 108/1990 regola, per la prima volta, limitatamente alla c.d. tutela obbligatoria, il tentativo di conciliazione. Lo spostamento di competenza dal giudice amministrativo a quello ordinario, tuttavia, creò un sovraccarico dei contenziosi di fronte a quest’ultimo, quindi nel ’98 è stato introdotto l’obbligo, per tutte le controversie di lavoro, di un tentativo di conciliazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale (nel senso: prima di andare dal giudice cerca di metterti d’accordo).
L’arbitrato
Esso è un istituto per mezzo del quale le parti pervengono alla composizione di una controversia attraverso il deferimento ad un terzo del potere decisionale. Trova la sua fonte:
nel compromesso, se la controversia è già insorta (art. 806 c.p.c.)
nella clausola compromissoria, inserita nei contratti, con cui le parti si impegnano al deferimento (808 c.p.c). La clausola compromissoria è nulla qualora autorizzi la pronuncia degli arbitri secondo equità, ovvero escluda l’impugnabilità del lodo.
Distinguiamo tra:
arbitrato rituale: si svolge come un vero e proprio giudizio e conduce alla formazione di un atto che acquista autorità di sentenza mediante un decreto di omologazione del giudice (impugnabile in Appello). Per le controversie di lavoro, il ricorso ad arbitri deve essere consentito da contratti collettivi: è inderogabilmente facoltativo e non alternativo alla giurisdizione: si deve comunque permettere di adire al giudice.
arbitrato irrituale (c.d. libero): viene deferito al terzo l’accertamento convenzionale delle situazioni soggettive litigiose. L’atto ha natura negoziale ed effetti contrattuali. È di regola nelle controversie di lavoro.
Nel secondo caso il lodo arbitrale è parificato alle rinunce e transazioni ed è quindi invalido se viola disposizioni inderogabili di legge oppure di contratti o accordi collettivi; ad esso sono applicabili i co. II e III dell’art. 2113, c.c., con la conseguente possibilità di impugnazione del lodo, per il lavoratore, nel termine di decadenza di sei mesi. In entrambi i casi l’atto formato si chiama lodo. Decorso il termine di 30 giorni dal lodo, esso può essere depositato presso la cancelleria del giudice, il quale, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto.
La riforma del ’98 ha introdotto nel codice di procedura civile gli artt. 412 ter e quater, che stabiliscono che anche l’arbitrato irrituale sia consentito soltanto a condizione che lo prevedano i contratti o che accordi collettivi nazionali di lavoro contemplino tale facoltà.
In materia di licenziamenti individuali, invece, è possibile anche l’arbitrato irrituale c.d. legalmente nominato, cioè consentito anche qualora non previsto da contratti ed accordi collettivi.