L’art. 338 c.p.c. afferma che “l’estinzione del procedimento in appello, o del giudizio di revocazione ordinaria per i motivi di cui al n. 4) e 5) dell’art. 395 c.p.c., fa passare in giudicato la sentenza impugnata, salvo che ne siano modificati gli effetti con provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto”.
In generale l’estinzione del giudizio d’appello e l’estinzione del giudizio di cassazione fanno passare in giudicato la sentenza impugnata, ma non è esattamente questa la conseguenza nel caso dell’estinzione del giudizio di revocazione e nel caso dell’estinzione del giudizio di rinvio.
Questi “provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto” devono essere necessariamente sentenze (i decreti e le ordinanze hanno una funzione ordinatoria, di regola producono effetti sul procedimento e vengono emanati per far progredire lo svolgimento del processo). Gli effetti di una sentenza possono essere modificati solo dagli effetti di un’altra sentenza.
Questi “provvedimenti” devono essere sentenze non definitive (questo perché il procedimento continua in quanto si estingue in un momento successivo).
Pertanto quando nel procedimento d’appello sono state emanate delle sentenze non definitive che hanno modificato gli effetti della sentenza appellata, allora questa sentenza non passa in giudicato se successivamente si estingue il processo d’appello.
Esempi:
– Tizio chiede la restituzione di una somma data a mutuo ed anche una condanna generica. Il giudice accoglie l’eccezione di prescrizione proposta dal convenuto e rigetta la domanda. Tizio propone appello chiedendo che venga pronunciata sentenza di condanna generica. Il giudice d’appello ritiene che la prescrizione non si è verificata e quindi emana la sentenza di condanna generica disponendo poi che il processo continui per la liquidazione. Il processo si estingue. In quest’ipotesi non passa in giudicato la sentenza di primo grado poiché la sentenza di condanna generica produce effetti incompatibili con la sopravvivenza della sentenza che accerta l’inesistenza del diritto di credito;
– Tizio propone una domanda di condanna alla restituzione di una somma data a mutuo. Il debitore eccepisce la prescrizione e la rimessione del debito. Il giudice dichiara che il credito è prescritto e che è assorbita la questione relativa alla rimessione del debito. Il creditore propone appello ed il collegio rimette anticipatamente la causa a decisione ritenendo che l’eccezione di prescrizione sia matura. In sede decisoria risolve in senso contrario, quindi emana una sentenza non definitiva con cui dichiara che non si è verificata la prescrizione. Poi il processo si estingue. Anche in questo caso non può passare in giudicato la sentenza di primo grado.
Cause di estinzione del giudizio d’appello:
– Inattività delle parti;
– Rinuncia agli atti del giudizio (art. 306 c.p.c.): la rinuncia deve essere accettata dalle parti costituite che hanno interesse alla prosecuzione del giudizio (questo dipende dalla possibilità di ottenere un provvedimento migliore da quello derivante dall’estinzione del giudizio d’appello, vedi p. 141). Il criterio di applicazione per l’applicazione è il medesimo di quello per il primo grado: la rinuncia deve essere sempre fatta dall’appellante, e deve essere accettata dall’appellato quando ha interesse alla prosecuzione del giudizio.
L’estinzione del giudizio d’appello determina di regola il passaggio in giudicato della sentenza, quindi di regola l’appellato non avrà interesse alla prosecuzione del giudizio (la sentenza d’appello è favorevole all’appellato). Avrà interesse quando non si ha il passaggio in giudicato della sentenza appellata (nel primo esempio sopra, se viene emanata la sentenza di condanna generica allora l’appellato avrà interesse alla prosecuzione del giudizio perché non passa in giudicato la sentenza a lui favorevole. Stando alla lettera della legge alla condanna generica segue solo la liquidazione del quantum, ma la giurisprudenza ammette che in tale sede possa venire accertata l’inesistenza del danno).
Acquiescenza (art. 329 c.p.c.):
– Il primo comma prevede l’acquiescenza propria: afferma che “l’acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità”. È una causa di perdita del potere d’impugnare. È l’accettazione della sentenza, questa può essere di due tipi:
Espressa: “non intendo impugnare”;
Tacita: quando vengono posti in essere atti incompatibili con la volontà di impugnare. Fino al 1990 (la L. 353/’90 in qualche sua parte è entrata in vigore subito) la sentenza di condanna di primo grado non aveva immediata efficacia esecutiva, pertanto si poteva ritenere che il pagamento spontaneo da parte del soccombente potesse integrare l’acquiescenza tacita. Ora, visto che la sentenza ha immediata efficacia esecutiva, il pagamento spontaneo può essere fatto proprio per evitare per il processo esecutivo. Il pagamento spontaneo quindi potrebbe configurare un acquiescenza tacita solo quando la sentenza è stata di mero accertamento. In realtà è molto difficile configurare delle ipotesi di acquiescenza tacita, bisogna effettuare un’indagine caso per caso;
– Il secondo comma prevede l’acquiescenza impropria: afferma che “l’impugnazione parziale importa acquiescenza rispetto alle parti della sentenza non impugnate” che non siano dipendenti dalle parti impugnate (questo inciso è pacificamente accolto da tutta la dottrina).
Sul concetto di parte (o capo) di sentenza vi sono varie opinioni:
Una prima ritiene che capo di sentenza coincida con il concetto di capo di domanda (ci sono tanti capi di sentenza quante sono le pronunce sulle domande cumulate). Perché si possa parlare di parte di sentenza bisogna che più siano le domande proposte in giudizio;
Altra ritiene che capo di sentenza coincida con il concetto di capo di questione: si hanno tante parti quante sono le questioni decise dal giudice (di merito o di rito). Quindi anche se vi è una sola domanda pendente vi possono essere più capi di sentenza;
Terza opinione distingue fra merito e rito:
Con riguardo al merito capo di sentenza coincide con capo di domanda;
Con riguardo al rito capo di sentenza coincide con capo di questione.
La giurisprudenza distingue:
Quando una sentenza è pronunciata in primo grado, quindi quando si tratti di proporre appello, capo di sentenza coincide con capo di domanda;
Quando invece ci si trova dinnanzi una sentenza d’appello e si tratta di proporre ricorso per cassazione, capo di sentenza coincide con capo di questione;
Quando la sentenza è in unico grado capo di sentenza va inteso come capo di questione.
La regola dell’indipendenza dalle parti impugnate discende dall’art. 336 c.p.c.: questo prevede il cosiddett effetto espansivo della riforma o della cassazione parziale:
Il primo comma prevede l’effetto espansivo interno: “la riforma o la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti dalla parte riformata o cassata”.
È definito “interno” perché parla effetto espansivo della riforma o cassazione della sentenza sulle altre parti della sentenza stessa.
Ecco che allora si comprende che l’impugnazione parziale importa il passaggio in giudicato delle parti della sentenza non impugnate, purché non dipendano dalle parti impugnate (se invece dipendono opera l’art. 336.1. c.p.c.).
Esempio: Tizio propone la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento e la domanda di risarcimento del danno. Vengono accolte entrambe. Caio impugna solo la parte di sentenza relativa alla condanna al risarcimento del danno. L’impugnazione di questa parte della sentenza fa passare in giudicato la parte della sentenza che ha risolto il contratto per inadempimento, questo perché quando si hanno domande tra loro dipendenti, se viene impugnata la decisione dipendente si ha il passaggio in giudicato della sentenza relativa alla causa principale. Vale la regola contraria se viene impugnato il capo di sentenza che ha deciso la domanda principale (nel caso di specie quella che ha risolto il contratto. Se in appello viene riformata tale parte della sentenza allora opererà l’art. 336.1 c.p.c.);
Il secondo comma prevede l’effetto espansivo esterno: “la riforma o la cassazione della sentenza estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”.
È definito “esterno” perché parla effetto espansivo della riforma o cassazione della sentenza altri atti o provvedimenti.
Esempi:
Tizio chiede la restituzione della somma data a mutuo. Caio propone più eccezioni. Si ha la rimessione anticipata al collegio perché il giudice istruttore ritiene matura per la decisione la questione relativa alla prescrizione. Il collegio invece emana una sentenza non definitiva di rigetto dell’eccezione di prescrizione. Il processo poi prosegue, e contro la sentenza non definitiva viene proposto appello immediato. Nelle more dell’appello viene pronunciata la sentenza di primo grado con cui viene accolta la domanda dell’attore. Questa passa in giudicato e arriva a decisione la causa d’appello. Il giudice d’appello ritiene che si sia verificata la prescrizione, quindi emana una sentenza definitiva di rigetto della domanda nel merito che travolge la sentenza di primo grado (anche se è passata in giudicato);
Tizio propone una domanda di restituzione di una somma data a mutuo. La sentenza accoglie la domanda (è immediatamente esecutiva). Il creditore instaura un processo esecutivo e pignora i beni del debitore. Questi nel frattempo aveva chiesto la sospensione dell’esecutorietà della sentenza. Il giudice d’appello accoglie l’istanza di sospensione e pronuncia l’inibitoria. A questo punto il pignoramento non può più proseguire. Si arriva in appello e qui viene rigettata la domanda del creditore. Questa sentenza travolge gli atti esecutivi compiuti, fa caducare il pignoramento.
Questo secondo comma fino al ’95 affermava “la riforma o la cassazione della sentenza passata in giudicato”. L’effetto di travolgere i provvedimenti e gli atti dipendenti si aveva solo quando si aveva il passaggio in giudicato della sentenza di riforma.