La prima disposizione sui danni da inadempimento contrattuale fa espresso riferimento sia al danno emergente sia al lucro cessante: il risarcimento del danno per inadempimento o per ritardo deve comprendere tanto la perdita subita dal creditore quanto il mancato guadagno (1223). Il riferimento alle due distinte voci di danno non è, di per sé, equivoco. Si prenda il caso del compratore il quale riceva tardivamente la consegna di un’area edificabile dopo il regolare pagamento del prezzo.

Il danno emergente è insito nella sfasatura cronologica tra l’immissione in possesso e il versamento del prezzo. Il lucro cessante è il mancato profitto: si manifesta nell’impossibilità di servirsi del bene per trarne ulteriori guadagni. A maggiori problemi dà luogo l’altra esigenza di fissare plausibili criteri di delimitazione dei danni risarcibili.

Il codice civile vigente ha subordinato il risarcimento della perdita e del mancato guadagno alla circostanza che i danni siano conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento (1223). I danni non prevedibili sono risarcibili solo nel caso dell’inadempimento intenzionale (1225). È presa espressamente in considerazione anche l’ipotesi del concorso di colpa del creditore nella produzione o nell’aggravamento del danno: sono esclusi i danni genericamente definiti come evitabili dal creditore (1227). La necessità di aprire il giudizio a duttili valutazioni casistiche trova infine un’eloquente fondamento nell’espresso rinvio all’equità del giudice (1226).

La disposizione che consente di risarcire soltanto i danni che siano conseguenza “diretta e immediata” dell’inadempimento dovrebbe fornire indicazioni sul nesso di causalità che deve esistere tra l’illecito contrattuale e la determinazione della misura dell’obbligazione risarcitoria. Il ricorso ad una formula ridondante e la genericità stessa delle due qualificazioni del danno non si prestano a conclusioni univoche. Il senso pratico dell’enunciato è stato spesso interpretato come un invito a fare buon uso dell’inevitabile discrezionalità del giudizio.

I giudici accolgono la teoria della regolarità causale, la quale appare come una formulazione vicina alla dottrina della causalità adeguata; e distinguono pertanto tra un inadempimento che è causa e un altro che è soltanto occasione del danno. Anche nel caso della responsabilità contrattuale a un uso meno generico e incerto delle pur necessarie valutazioni empiriche può inoltre contribuire il riferimento al contenuto dell’obbligo inadempiuto.

Il criterio del nesso tra la natura e il contenuto della prestazione e le conseguenze negative che all’inadempimento della stessa sono giuridicamente ascrivibili sembra soddisfare in maniera più precisa la duplice esigenza di non predeterminare in maniera rigida l’area del danno risarcibile e al tempo stesso di circoscriverla, con un criterio sufficientemente controllabile, alla specifica ragion d’essere del fenomeno regolato.

Danno risarcibile è quindi il danno che ha nel singolo inadempimento il suo presupposto secondo una serie causale normale anche nel senso di: danno normativamente imputabile a quel singolo inadempimento in relazione al titolo del rapporto. L’esempio più chiaro di danno soltanto mediato e indiretto è anche il più antico: risale alle note pagine di Pothier e influenza la norma del codice napoleonico che è all’origine del codice civile italiano del 1865 e alla base della disciplina vigente.

La regola era: anche quando il debitore è in dolo, egli non è tenuto a risarcire i danni che non sono una conseguenza necessaria dell’inadempimento. Si afferma che non erano risarcibili i danni connessi all’espropriazione forzata. La distinzione tra la disciplina dei danni da inadempimento e dei danni aquiliani è testuale con riguardo a un ulteriore limite legale del risarcimento: l’esclusione della possibilità di pretendere il risarcimento dei danni che non siano prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione.

Il giudizio di prevedibilità del danno è una valutazione di probabilità da compiersi alla stregua della diligenza e dei parametri di riferimento oggettivi e normali ma adeguati alle circostanze. già si è accennato al fondamento razionale della regola: chi si assume contrattualmente un obbligo deve adottare le misure idonee ad assicurare probabilmente i risultati dovuti.

I principali problemi ermeneutici a cui l’esclusione della risarcibilità dei danni imprevedibili ha dato luogo si riferiscono: alla possibilità di equiparare la colpa grave al dolo; alla necessità o non della consapevole volontà di arrecare danno rendendosi inadempienti; alla determinazione del momento a cui deve farsi risalire la prevedibilità del danno; all’oggetto di quest’ultima. Il danno imprevedibile è risarcibile quando sia la conseguenza di un inadempimento intenzionale; non si esige che sia stato voluto come tale dal debitore.

Comunque nel nostro sistema l’interpretazione estensiva non può spingersi fino all’equiparazione del dolo alla colpa grave: la gravità di negligenza non è sufficiente a giustificare un ampliamento dell’applicazione della norma. La legge è chiara nell’identificare il momento della prevedibilità con il tempo in cui è sorta l’obbligazione.

Si è infine affermato che anche l’ammontare del danno debba essere prevedibile e condizioni l’entità del risarcimento: gli aspetti su cui più labile è la capacità di previsione non si riferiscono infatti alla possibilità che un danno si verifichi, ma alla gravità delle conseguenze che l’inadempimento può produrre in relazione alle peculiari circostanze del fatto.

L’ultima disposizione che fissa l’area dei danni risarcibili è diretta da escludere le conseguenze che non siano imputabili al comportamento del debitore, ma derivino anche a una condotta ascrivibile al creditore (1227) o da eventi successivi che il creditore stesso avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza. Una prima norma regola il concorso del comportamento del creditore nella produzione dell’evento dannoso.

La legge è esplicita nell’affermare che il risarcimento dovrà essere diminuito secondo due parametri: l’uno è costituito dall’efficienza causale che il fatto colposo del creditore ha avuto nella sequenza che ha condotto all’inadempimento; l’altro è costituito dalla gravità della colpa del creditore stesso (1227).

La previsione normativa assume un significato meno equivoco, ove si accolga l’opinione secondo cui la gravità della colpa sarebbe un presupposto per l’ammissibilità della riduzione del risarcimento e la rilevanza del comportamento imputabile, a titolo di autoresponsabilità, al creditore influirebbe soltanto sulla determinazione della misura quantitativa della riduzione.

La casistica più discussa si riferisce al comportamento del danneggiato incapace d’intendere e di volere. Ove si ammetta che non vi sia colpa se il coautore non è imputabile, manca il presupposto stesso del fatto che la legge fa gravare sul creditore: il risarcimento dovrebbe essere integrale. La giurisprudenza attribuisce ugualmente rilievo al comportamento del danneggiato incapace: la norma farebbe riferimento a una nozione oggettiva di colpa intesa come autoresponsabilità, nella quale sarebbe ricompresa anche la trasgressione di una regola di diligenza da parte di un soggetto incapace di intendere e di volere.

Una seconda norma presuppone che all’inadempimento e ai danni imputabili integralmente al debitore facciano seguito danni ulteriori imputabili alla condotta del creditore. La norma è più lineare: qui a maggior ragione si esce dal territorio intricato delle concause. L ‘inadempimento e i danni conseguenti hanno come causa efficiente il comportamento del debitore; ma il creditore con il suo atteggiamento di colpevole inerzia, che gli è imputato a titolo di autoresponsabilità, non impedisce che i danni si aggravino.

Il giudice deve pertanto valutare in linea di fatto tutti gli elementi di prova che consentano di distinguere il danno da inadempimento dall’aggravamento effettivamente imputabile alla negligente omissione del creditore. La letteratura ha ravvisato nell’art.1227 comma 2 una conferma di rilievo che, nella trama delle singole previsioni testuali e del loro presupposto politico, ha la normativa della correttezza: il richiamo alla buona fede oggettiva descrive soprattutto la ragion d’essere di una disposizione specifica.

Altro problema è quello della liquidazione, ossia della determinazione della misura del danno. In alcune ipotesi legalmente previste la base del danno risarcibile è regolata in via preventiva; analoga possibilità è lasciata ai contraenti entro i limiti fissati dall’ordinamento; infine, è conferita al giudice la potestà di liquidare il danno con valutazione equitativa, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare (1226). Il giudizio di equità non ha un carattere alternativo rispetto allo “strictum jus”; ma completa il sistema.

Due sono i presupposti: che vi sia la certezza sull’esistenza del danno; che vi sia l’impossibilità di valutare il danno nel suo preciso ammontare. L’intervento discrezionale del giudice trova una più puntuale determinazione all’art. 2056, dove si afferma che la valutazione equa deve tenere conto delle circostanze del caso e, in primo luogo, del necessario contemperamento tra gli interessi in conflitto. L’esemplarità del danno morale non esclude che sia un dato tipico e costante della valutazione equitativa, in termini generali, l’accertamento in concreto.

 

 

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