La correttezza (buona fede oggettiva)

Tra le disposizioni generali in materia di obbligazioni il legislatore ha posto in prima evidenza la regola della correttezza (1175). E’ questo un criterio di valutazione del comportamento di entrambe le parti. La diligenza rileva, invece, per espressa previsione della norma successiva, soltanto con riguardo al debitore, ossia alla prestazione dovuta e alla sua natura. Negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice civile fu posta in dubbio la vigenza dell’art. 1175.

La disposizione sembrava strettamente legata nel contenuto ai principi di solidarietà corporativa. Quell’opinione, ove fosse accolta avrebbe privato l’ordinamento di un utile strumento elastico di valutazione e ricostruzione del comportamento delle parti. In termini applicativi c’era l’eloquente conferma del notevole rilievo che la clausola generale della buona fede oggettiva (242 B.G.B.) poteva assumere nella pratica. Era ancora discussa la tendenza a servirsi della clausola come porta di ingresso dei valori costituzionali nel sistema di diritto civile (drittwirkung).

Ma la discussione non era provocata dal timore di contaminare il diritto con le ideologie. Sembrava pure perdere importanza l’analisi dei criteri distintivi tra la nozione di correttezza e la nozione di buona fede in senso oggettivo. Buona fede oggettiva e correttezza sono concetti analoghi che consentono all’interprete di valutare il comportamento delle parti in relazione al contenuto del rapporto e alle circostanze del fatto.

La letteratura prevalente ravvisa in tali criteri la fonte di altrettanti obblighi integrativi. Si tratta di comportamenti imposti nella fase esecutiva tanto al debitore quanto al creditore, esigibili in via autonoma e tali da rendere fin dall’origine complessa la struttura del rapporto obbligatorio.

Diligenza

Soltanto al debitore è riferito il canone di valutazione generale costituito dalla diligenza (1176 comma 1). Un tale criterio è previsto con all’esecuzione della prestazione, secondo il parametro, molto discusso nelle sue origini e nel significato moderno, del comportamento che deve tenere il buon padre di famiglia. La legge fa anche riferimento alla conoscenza e all’applicazione delle regole tecniche richieste soprattutto da talune specifiche attività professionali (1176 comma 2).

In una nozione tanto ampia è compreso pertanto il concetto di “perizia”, che ha un carattere più estrinseco e più oggettivo (presuppone infatti la conoscenza di regole tecniche che non sono patrimonio di tutti). Nel codice napoleonico la diligenza è presa in considerazione con riguardo alle prestazioni di dare e si lega strettamente alla loro custodia; i compilatori del codice napoleonico per primi avvertirono la necessità di avvalersi di un criterio duttile ma tendenzialmente unitario e ripudiano l’elaborazione del diritto intermedio sui tre gradi della colpa (lievissima, lieve, grave); prese a delinearsi la figura della diligenza e quindi della colpa professionale che è strettamente legata alle nozioni della perizia e dell’esecuzione a regola d’arte.

Al termine di questa evoluzione, all’antica diligenza della custodia si è ormai sostituito un criterio generale: che è esteso a un’ampia gamma di rapporti con contenuto eterogeneo ma che non subisce le dubbie suggestioni della dottrina sui gradi della colpa. La diligenza del debitore suole essere richiamata anche quando si procede alla valutazione dell’imputabilità al debitore della causa che ha reso impossibile l’adempimento della prestazione.

L’art. 1218 afferma che il debitore è responsabile del mancato o del tardivo adempimento, se non provi:

1) che il credito è rimasto insoddisfatto per causa a lui non imputabile;

2) che il credito è rimasto insoddisfatto a causa di un evento che ha reso impossibile la prestazione.

La dimostrazione dell’impossibilità è data su basi che dovrebbero essere commisurate al titolo del rapporto, alla natura della prestazione, alle circostanze. La prova della non imputabilità dell’evento impeditivo presuppone un riferimento alla regola della diligenza. Il riferimento all’impossibilità di adempiere e alla non imputabilità attenua nel nostro ordinamento la distinzione tra caso fortuito e forza maggiore, né ha particolare importanza l’origine dell’evento impeditivo in un ordine o in un divieto della pubblica autorità (factum principis): difatti quel che si pretende legittimamente è l’uso di tutti gli strumenti e di tutte le misure corrispondenti a uno specifico rapporto obbligatorio.

La diligenza e la perizia sono prese in considerazione dal legislatore tanto al fine di controllare le modalità dell’adempimento, quanto al fine di accertare l’imputabilità o la non imputabilità del mancato adempimento. Si è affermato che l’essenza dei due criteri si limiterebbe alla misurazione dell’esatto adempimento di quelle prestazioni ricomprese nel genere delle obbligazioni di fare.

Occorre tuttavia non cadere nell’equivoco di affermare che l’attività diligente ed esperta, nel caso delle obbligazioni di mezzi, sarebbe a fondamento di una speciale ipotesi di esonero dalla responsabilità per il carattere incolpevole del mancato adempimento: in realtà, tale è in quelle ipotesi l’oggetto dell’obbligazione che la prova dell’attività diligente e esperta è già prova dell’adempimento dell’obbligo.

Infatti, se il creditore dimostra che le regole oggettive richieste dalla natura della prestazione non sono state rispettate, il debitore potrà ancora ricorrere alla prova dell’impossibilità non imputabile. Ancora aperta è la questione della misura della diligenza richiesta. Ambiguo è il riferimento testuale ad un canone, spesso inteso in senso molto mediocre che normale e ponderato, il quale sembra ancora evocare i comportamenti caratteristici di un’economia preindustriale (buon padre di famiglia art. 1176 comma 1).

La valutazione volontaristica della diligenza quale “mediocritas” cerca di rifarsi a una tradizione che non trova più supporto nella disciplina vigente. Invece, l’interpretazione che lega la diligenza e la perizia, secondo la ragione giustificativa del rapporto, all’adozione di tutte le misure idonee al pieno conseguimento dell’oggetto del credito o alla sua integrale tutela, elimina molte antinomie, già in linea di principio; e tiene conto delle singole articolazioni della materia della responsabilità contrattuale.

Uno dei punti più controversi riguarda l’onere della prova. Difatti, l’adozione di tutte le misure idonee può comportare prova dell’adempimento ovvero in via presuntiva, prova dell’impossibilità dipendente da una causa non imputabile di adempiere. Il rapporto tra la norma generale di diligenza, la disciplina della responsabilità contrattuale e le numerose disposizioni speciali in cui è testuale il riferimento alla diligenza o alla colpa è ricostruito in maniera non univoca dalla letteratura civilistica: ora prevalgono le tendenze sistematiche unitarie; ora si predilige la presa di coscienza della frantumazione del sistema, nel quadro di un’accentuazione dell’importanza attribuita alle previsioni tipiche.

Alcuni punti sembrano comunque incontrare un consenso diffuso: l’inerenza del principio della diligenza al solo debitore; l’irrilevanza del generico “sforzo”; l’impossibilità di concepire la diligenza quale fondamento per l’imposizione o per l’esclusione di singoli doveri non strettamente richiesti dalla natura della prestazione.

Ai criteri della correttezza e della buona fede oggettiva spetta invece la funzione di valutare, nel contesto delle attività di relazione tra le due parti, quel che sia dovuto. Ferma restando l’ampia sfera dei casi ricompresi nelle nozioni di correttezza e di buona fede oggettiva, soltanto la regola della buona fede oggettiva sembra strettamente pertinente la qualificazione in termini di clausola generale.

 

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