Il linguaggio causale, che ci ha permesso di sciogliere la cosiddetta assunzione del rischio, non porta ad alcun esito di fronte alla domanda se nel caso concreto il fumo sia stato la causa od una delle cause di una specifica malattia.
La risposta non può esser né positiva né negativa: ci si deve accontentare della probabilità.
Occorre aver chiaro che se, come nel caso del fumo, la scienza medica ha accertato un aumento significativo di probabilità della malattia in presenza del fattore in questione, la pronuncia di responsabilità che ne segue, anche se adopera il linguaggio della causalità, in realtà sostituisce ad esso il criterio del rischio, o più precisamente della corrispondeza tipologica del fatto concretamente accertato alla fattispecie della norma che si intende applicare.
Diversamente da quanto esigerebbe il linguaggio causale, la responsabilità non viene dichiarata in base alla connessione accertata, tra l’evento ed un determinato fatto concreto, bensì in base ad un giudizio che qualifica il fatto nei termini della fattispecie contenuta nella norma ritenuta applicabile.
Quando si parla di causalità probabilistica, ci si aggrappa alla causalità per sfruttare gli esiti pretesamente certi del linguaggio naturalistico, ma in realtà si adopera un modello tipologico esclusivamente giuridico.
Nella questione in esame è innegabile il legame causale tra la messa in circolazione di prodotti da fumo e l’azione del fumare per un periodo più o meno lungo.
Ma non si può dire stabilito il nesso tra quest’ultima e l’evento lesivo.
{Federico Stella parla di ostacoli insormontabili alla prova della responsabilità individuale.
Il criterio del “più probabile che no”, che egli dice proprio del processo civile, abbisogna però di giustificazione in un sistema di legge scritta come il nostro, nel quale la regola fondamentale, il 2043, esige ai fini della responsabilità che taluno abbia cagionato ad altri un danno ingiusto.
Quanto al criterio dell’“oltre il ragionevole dubbio”, proprio del processo penale, esso a sua volta è un modo di concretizzazione – di matrice anglosassone – del principio del libero convincimento del giudice}.
Da ciò emerge che, se da un lato è necessario accertare che il fumare c’è stato, in conseguenza della messa in circolazione del prodotto relativo e dell’uso del medesimo da parte del consumatore, dall’altro risulta che se si deve parlare di una responsabilità nella specie, essa non si radica nel rapporto di causalità, ma nella corrispondenza al tipo di fattispecie.
Il nesso causale svolge precisamente un ruolo nella determinazione della messa in circolazione del prodotto come condotta sine qua il fumatore non avrebbe potuto esser tale.
{Sul terreno della causalità, negli Stati Uniti in materia di danni da fumo, relativamente alle conseguenze puramente patrimoniali che ne sono derivate ai fondi di assicurazione contro le malattie, per l’assistenza medica prestata ai danneggiati, le azioni esercitate dai detti fondi contro i produttori di tabacco sono state respinte per difetto di proximate cause.
Però le imprese produttrici di sigarette hanno affrontato costi notevoli, stipulando transazioni volte ad evitare giudizi reputati notevolmente rischiosi per le imprese stesse.
È interessante notare come a fondamento delle pretese della sanità pubblica sia stato posto l’ingiustificato arricchimento (lo nota anche Asbjørn Kjønstad)}.
{Quanto detto mi pare esemplificato da App. Roma 7 marzo 2005, che ha affermato la responsabilità dell’Ente nazionale tabacchi nei confronti dei familiari di un fumatore morto di cancro al polmone.
La sentenza affronta la questione della causalità prima di chiedersi quale norma possa dirsi in astratto applicabile alla fattispecie.
E dopo aver accertato la connessione causale tra il cancro ed il fumo, in base ad un giudizio probabilistico, salta letteralmente al 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose), affermando la responsabilità del produttore di sigarette come esercente un’attività pericolosa che non ha provato di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.
È chiara l’inversione di metodo, perché la causalità va accertata partendo dalla norma che si reputa applicabile.
Quanto al merito, l’impostazione della decisione in chiave causale attesta la stessa su un terreno di oggettività che non c’è, per l’incertezza stessa che caratterizza il discorso causale; mentre a rilevare ai fini del decidere è il tipo di attività e di prodotto}.