Si può dire che dalla decisione Sace in avanti, la Corte di giustizia, nel quadro della costante evoluzione della sua giurisprudenza, ha riconosciuto che le direttive e decisioni (CE e Euratom) destinate a Stati membri sono suscettibili di effetti diretti: l’effetto «utile» di una direttiva sarebbe infatti affievolito se i cittadini dello Stato membro destinatario non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderla in considerazione come parte integrante del diritto comunitario. Il vincolo della direttiva – ha precisato successivamente la Corte – vale anche per gli organi dell’amministrazione non appartenenti allo Stato in senso stretto.

Le condizioni per l’effetto diretto delle direttive, descritte con chiarezza nel caso Van Duyn, sono state precisate in una serie di sentenze successive: la direttiva deve essere incondizionata e sufficientemente precisa; deve essere trascorso il termine per la trasposizione in norme interne assegnato agli Stati.

La sussistenza di queste condizioni costituisce spesso oggetto di controversia avanti la Corte di giustizia. In una serie di sentenze di grande rilievo, questa ne ha precisato il senso, integrando, in taluni casi, la portata del principio dell’effetto diretto.

La prima condizione in genere non dà luogo a difficoltà (soprattutto quando si tratta di direttive «particolareggiate», cioè consistenti di norme aventi una fattispecie definita in ogni suo elemento). Quanto alla seconda, vi è da segnalare la sentenza Emmott, in cui la Corte (5-VII-1991, causa C-208/90, Raccolta, p. I-4269) ha statuito che i termini di ricorso nazionali per far valere un diritto creato da una direttiva non decorrono dalla data della legge emanata dallo Stato per trasporla ma, se la legge non la traspone correttamente, dalla data posteriore in cui è stato emanato un provvedimento di trasposizione veramente conforme alle prescrizioni della direttiva. Solo in questo momento, infatti, «si è creata la certezza giuridica necessaria per pretendere dai singoli che essi facciano valere i loro diritti». In forza del proprio primato, il diritto comunitario effettua qui una modificazione evidente del diritto interno.

Nel caso Ratti (5-IV-1979, causa 148/78, in Raccolta, p. 1629), come fondamento teorico della propria posizione favorevole all’applicabilità diretta, la Corte ha indicato l’argomento che uno Stato membro non può invocare una propria inadempienza (la mancata attuazione della direttiva) come eccezione contro un’azione promossa da un individuo avanti ad uno dei suoi tribunali per la mancata tempestiva attuazione della direttiva medesima.

È questo il principio generale dell’estoppel, proprio del diritto inglese, secondo il quale un soggetto non può fondarsi su di un proprio atto per reclamare un diritto nei confronti di un altro soggetto che aveva confidato legittimamente su tale atto (non licet venire contra factum proprium). Ne sono esempi, in diritto italiano, la perdita dei possibili vantaggi legati all’esistenza di una condizione, disposta a carico di chi ne abbia reso impossibile l’avverarsi (art. 1359 c.c.), il divieto per il debitore che ha eseguito la prestazione di impugnare il pagamento a causa della propria incapacità (art. 1191 c.c.), la regola dell’art. 157 c.p.c. per cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa etc.

In ogni caso l’efficacia diretta delle direttive riguarda i rapporti verticali, cioè quelli tra i cittadini e lo Stato, rimanendo esclusi quelli orizzontali, vale a dire dei cittadini tra di loro.

Così ha deciso la Corte di giustizia delle Comunità europee nel caso Marshall (26-II-1986, causa 152/84, Raccolta, p. 723). Miss Marshall era un’impiegata di un ente inglese, la Southampton Area Health Authority, che si doleva del fatto di essere stata collocata a riposo all’età di 62 anni quando nel suo Paese l’età della pensione era fissata, per gli uomini, a 65 anni. Essa invocava a proprio favore la direttiva CEE 76/207 che proibisce la discriminazione dei lavoratori in base al sesso. La Corte statuì che le direttive non impongono obblighi agli individui aggiungendo tuttavia che esse valgono anche nei confronti dello Stato (o di un ente statale) che agisca come datore di lavoro e non soltanto come legislatore perché «in entrambi i casi è opportuno evitare che lo Stato possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario». Successivamente, la Corte (12-VII-1990, in causa 188/89, in Raccolta, 1990) ha ammesso la possibilità di invocare una direttiva – si trattava della medesima 76/207 – nei confronti di qualsiasi ente incaricato di un servizio d’interesse pubblico in forza di un atto della pubblica autorità.

L’esclusione degli effetti «orizzontali» delle direttive, confermata da numerose sentenze della Corte, e da ultimo da quella 14-VII-1994, causa C-91/92, Faccini-Dori, in Raccolta, p. I-3325 e da quella 7-III-1996, causa C-192/94 (entrambe riguardano direttive a tutela del consumatore che invece le giurisdizioni nazionali a volte applicano), è stata criticata da molti, per quanto riguarda la materia “sensibile” del lavoro, con l’argomento specifico che in tal modo si finisce per favorire i dipendenti pubblici perché, a differenza di quelli privati, possono invocare le direttive contro i propri datori di lavoro..

Nondimeno, in alcuni casi la Corte ha attribuito alle direttive un effetto diretto orizzontale di carattere incidentale, cioè attraverso disposizioni legali nazionali da interpretarsi in conformità delle direttive , oppure anche affermando la prevalenza della direttiva sulle norme nazionali di trasposizione.

 

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