Nel passato la colpevolezza era legata alla teoria retributiva perché la retribuzione (concepita come reazione afflittiva al male commesso) presuppone una colpevolezza da annullare. Con l’entrata in crisi della teoria retributiva, è sorto il problema di trovare una nuova giustificazione della categoria della colpevolezza.

Oggi la pena non è la conseguenza indefettibile dell’accertata colpevolezza, ma questa è solo condizione necessaria non anche sufficiente; infatti, una volta accertata la colpevolezza, ha senso punire solo se ciò serve a distogliere gli altri dal commettere reati (funzione di prevenzione generale) o a impedire che lo stesso autore torni a delinquere (funzione di prevenzione speciale). Ma se l’inflizione della pena è condizionata da esigenze preventive, allora si è in dubbio se la colpevolezza ha una vera ragion d’essere nel diritto penale o se invece, la sua sopravvivenza è solo un compromesso provvisorio con vecchio diritto penale retributivo.

Colpevolezza come elemento costitutivo del reato

Secondo una parte della dottrina, la colpevolezza come presupposto del reato, oggi riceve una legittimazione grazie al suo rapporto si strumentalità rispetto alla funzione preventiva della pena. Intercorre infatti un nesso di funzionalità tra:

  • la categoria della colpevolezza e la prevenzione speciale: infatti, la pretesa statuale di promuovere il rispetto dei valori tutelati è plausibile solo se l’azione criminosa costituisca il risultato di una scelta volontaria (dolo) o di una condotta volontariamente evitabile (colpa), per contro la mera causazione di eventi incolpevoli non giustifica un bisogno di rieducazione.
  • La categoria della colpevolezza e la prevenzione generale: la minaccia della pena deve fungere da appello rivolto alla coscienza del potenziale delinquente per indurlo a desistere dal commettere reati, ma perché ciò possa avvenire è necessario che la commissione del fatto criminoso rientri nei poteri di controllo personale del soggetto, quindi la realizzazione del fatto deve dipendere da dolo o colpa. Se infatti, il legislatore punisse anche la produzione di eventi lesivi sottratti al controllo del oggetto, la minaccia della sanzione perderebbe efficacia deterrente (una legge penale che punisse anche fatti incontrollabili difficilmente potrebbe fungere da appello rivolto alla volontà dell’agente per distoglierlo dal commettere reati).

Talvolta comunque (anche se mancano indagini empiriche probanti) è possibile che la consapevolezza del rischio di poter essere incriminati anche per le conseguenze incontrollabili, abbia l’effetto di indurre a desistere del tutto dal compimento di certe azioni ovvero a elevare gli standars di diligenza. Se è astrattamente ipotizzabile che il ricorso a forme di responsabilità oggettiva sia idoneo a rafforzare la funzione preventiva generale della pena, allora significa che la colpevolezza non è presupposto indefettibile del reato. Quindi la scelta di non derogare al principio di colpevolezza non può basarsi su motivazioni riguardanti il piano dell’efficacia general preventiva del sistema penale.

 

Colpevolezza come criterio di commisurazione della pena

Anche la scelta della sanzione più adeguata al caso concreto è influenzata dagli scopi di prevenzione generale e speciale cui la pena è finalizzata. Il problema è se la prospettiva della prevenzione possa rappresentare l’unico criterio guida del giudice, sino al punto di trascurare il rapporto di adeguatezza che deve sussistere tra l’entità della pena e il grado di colpevolezza.

In effetti, una misura di pena strettamente agganciata al grado di colpevolezza potrebbe apparire, in alcuni casi, troppo blanda al fine di scoraggiare altri soggetti dalla commissione potenziale di reati dello stesso tipo, per cui il giudice potrebbe essere indotto, per rafforzare l’efficacia deterrente della pena, a infliggere una pena che eccede al misura “giusta” che il reo meriterebbe in rapporto al singolo fatto già commesso.

Se si punisse in misura sproporzionata rispetto alla gravità della colpevolezza, si finirebbe col ledere l’autonomia e la dignità della singola persona umana, che verrebbe strumentalizzata per fini politico- criminali. (es. se A, nel traffico stradale, cagiona per lieve distrazione un incidente, per ragioni di prevenzione potrebbe essere opportuno infliggere una sanzione grave; ma il principio di colpevolezza impone una pena mite per una colpa lieve, impedendo che la libertà dell’individuo venga sacrificata all’interesse della intimidazione generale).

Il principio di colpevolezza assume, quindi, una funzione limitativa della punibilità (in sede di commisurazione della pena) perché il rispetto a esso dovuto vieta, pur nel perseguire scopi di prevenzione, di infliggere pene di ammontare superiore al limite massimo corrispondente all’entità della colpevolezza individuale.

Bisogna infine chiarire se il giudice debba accertare il potere individuale di agire altrimenti (presupposto della colpevolezza), del soggetto concretamente sottoposto a giudizio ovvero se la possibilità di agire altrimenti vada commisurata al potere di un uomo medio, prefigurato in base ad aspettative normativo- sociali, ispirate a loro volta all’esigenza di prevenire lesioni ai beni giuridici.

Alcuni autori dubitano che con i mezzi del processo penale, si possa accertare la possibilità di autodeterminazione dell’agente concreto, mentre altri insistono invece, sull’esigenza di valutare la capacità individuale di agire diversamente, perché il riferimento all’uomo medio sottrae al giudizio di colpevolezza ogni fondamento reale, con la conseguenza di trasformare la colpevolezza in una categoria vuota di contenuto perché priva di requisiti positivi autonomi.

 

Lascia un commento