Si parla di nuova criminologia, di criminologia critica e di criminologia della reazione sociale o interazionistica per riferirsi a un gruppo variegato di studiosi che possono ritenersi accomunati dal rifiuto della vecchia criminologia presa di mira per il vizio metodologico principe della scuola positiva. Il criminologo clinico utilizza i risultati delle sue ricerche per spiegare la delinquenza in generale commettendo l’errore di far coincidere la categoria delle persone che hanno commesso un reato con la categoria delle persone definibili come criminali.

Le critiche hanno una visione del crimine come risultato finale di un processo sociale di interpretazione e interazione messo in atto da una molteplicità di attori e operazioni. Si tratta di un cambio di paradigma. Il ruolo di catalizzatore di una tale nuova coscienza viene fatto risalire già agli scritti del sociologo criminale statunitense David Matza che ha destato l’attenzione su alcune manchevolezze della visione positivistica ritagliando i tre assunti fondamentali della criminologia critica:

  • necessità di anteporre all’azione criminale la considerazione della legge da cui tale azione riceve la sua qualificazione
  • superamento dell’ingiustificato determinismo epistemologico, uomo libero di scegliere le sue azioni
  • critica alla separazione dei positivisti tra soggetto criminale e soggetto conforme alle regole sociali.

L’attenzione di questi filoni si appunta dunque sul dinamismo intermedio della criminalizzazione più che sulla statica conclusiva in cui esso trova sbocco. Conseguente a tale visione è un brusco spostamento del fuoco dell’analisi criminologica che in gran parte abbandona il crimine e il criminale per indirizzarsi in modo preminente alle agenzie e al sistema di controllo sociale da cui dipende la costruzione di queste due categorie in cui dunque si identifica il complesso delle condizioni di produzione sociale della criminalità.

Se sul segno negativo posto dinnanzi al modello classico e soprattutto positivista è possibile vedere raccolti tutti i filoni criminologici considerati, l quadro si fa più variegato ove si voglia risalire alle diverse matrici teoriche o ideologico-culturali che fanno da sfondo al comune esito critico avverso al paradigma tradizionale. Ancor più arduo diviene il compito se ci si propone di sceverare le diverse visioni politico-criminali in cui si vorrebbe che un tale rovesciamento di prospettiva trovasse sbocco.

L’istanza critica esprime complessivamente un forte impulso verso l’integrazione sia come maggiore coesione tra discipline che come allargamento della prospettiva criminologica tale da superare l’isolamento tradizionale del crimine e del criminale. Non può trascurarsi il peso che nei filoni assume la rivendicazione di autonomia della criminologia rispetto al diritto. Quanto all’integrazione, esemplare resta il modello inaugurato dalle cosiddette teorie dell’etichettamento o labelling approach cui si attribuisce un effetto slavina, esplosivo prodotto sulla discussione criminologica nei primi anni 60. Concezione secondo cui la criminalità o meglio la devianza non è una qualità intrinseca di un certo comportamento ma si identifica con l’assunzione di un tale ruolo sociale attribuito attraverso l’etichettamento da parte di un soggetto collettivo a causa del comportamento tenuto per libera scelta.

Si è posta l’esigenza di oltrepassare la fase del mero riscontro di un rapporto tra criminalità e reazione da parte delle agenzie di controllo con un collegamento sistematico tra i due elementi. Ne è scaturita una più articolata caratterizzazione della criminologia critica in termini politici e di concezione dello Stato che ha trovato espressione soprattutto in due versioni note come la criminologia del conflitto e la criminologia marxista tra loro peraltro strettamente correlate o con ampie sfere di sovrapposizione. Il termine conflitto riveste una spiccata centralità nell’odierno dibattito empirico-sociale. Va ricordato un non trascurabile filone di criminologia femminista.

Si può osservare come per criminologia del conflitto si intenda un insieme di orientamenti che, al pari di analoghe prospettive maturate in campo sociologico avvertono a consapevolezza degli squilibrati rapporti di potere esistenti nella società. A questi ordinamenti è per definizione comune l’avversione rispetto alle visioni consensuali: si respinge l’idea che nella società vi sia una condivisione di valori e obiettivi fondamentali. Se lo stesso Sutherland insieme al grande teorico del conflitto culturale Sellin può essere annoverato tra gli anticipatori delle teorie conflittuali, esponenti a pieno titolo ne sono considerati noti studiosi come Chambliss, Turk e Quiney. Sono teorici che accentuano la visione dell’ordinamento giuridico e delle norme come strumento e risultato del dominio di una classe sociale sulle altre.

Insoddisfacente è apparsa in dottrina la prospettiva centrata sul conflitto ove assunta come universale chiave di lettura della criminalizzazione o come rispecchiamento del modo in cui gli stessi protagonisti della vicenda criminale tendono a vivere il loro rapporto con le istituzioni del controllo sociale. Tra i suoi limiti si è configurata l’incapacità di esprimere strategie in grado di indirizzare la regolazione e risoluzione dei conflitti sociali così accuratamente censiti e classificati.

Una certa consapevolezza conflittuale può risultare utile ad attrezzare di spirito critico soprattutto il giurista interno al quotidiano lavoro dogmatico e sistematico. Analogamente salutare può essere per il giurista una certa consapevolezza conflittuale al cospetto di concezioni funzionaliste del diritto penale che vi identifichino con troppa disinvoltura il rispecchiamento di regole o valori sociali generalmente condivisi e che vedano nel reato un fenomeno disfunzionale che impedisce o frappone ostacoli a che il sistema sociale risolva problemi della sua conservazione.

Nello stesso ambito la visione conflittuale può vedersi accreditato lo stabile ruolo di criterio per la classificazione e comprensione delle diverse tipologie di reato. Accanto a un ristretto novero di crimini gravi consensuali, la realtà dei diritti penali moderni può esibire un ben più ampio corredo di comportamenti delinquenziali relativamente ai quali il giudizio sociale è frammentato. Le implicazioni derivanti dal riscontro di un differenziato grado di consenso sulle norme penali sono enormi e di grandissimo interesse scientifico in campo criminologico e politico sociale. Esse si localizzano nella discussione sulla funzionalità della pena e sul connesso imponente fenomeno della cifra oscura.

Fittamente intrecciata con il paradigma conflittuale e tuttavia portatrice di autonome istanze teoriche, è la criminologia marxista: una versione del pensiero critico particolarmente caratterizzata da una riflessione sui temi economici ma anche sull’obiettivo di elaborare non senza originalità una teoria del diritto e dello Stato sviluppata solo in modo sporadico e indiretto dagli stessi esponenti del marxismo classico.

Un certo interesse merita un brano ironicamente dedicato alle varie forme di produttività del delinquente: un filosofo produce idee, un delinquente produce delitti ma anche diritto penale e suo manuale, con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale. Crea anche la polizia, la giustizia, i giudici…il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Influenzato da vari studi storico-sociali questo filone mira a inquadrare il problema della criminalità nel più ampio contesto dell’analisi sociale sviluppando però in particolare l’assunto di base del pensiero marxiano che identifica nel sistema capitalistico la principale fonte di disuguaglianza sociale. La criminalità è vista come il prodotto di un sistema di privilegi: sarà dunque quest’ultimo a dover essere reso inoffensivo.

In generale un certo romanticismo o idealismo inerente all’inquadramento del criminale come ribelle. Ogni prospettiva di inquadramento e spiegazione del crimine trova insieme radicamento e sbocco in una certa visione politico criminale che però stenta a emergere dalle teorizzazioni delle nuove criminologie. La difficoltà nasce soprattutto dal fatto che in esse si riscontra una espulsione del crimine dall’analisi criminologica, un rifiuto di usarlo come strumento concettuale.

L’esito propositivo più naturalmente e coerentemente associato al pur sterminato universo della criminologia critica è appunto quello abolizionista in grado di evocare unitariamente l’aspirazione a sbarazzarsi in tutto o in parte del sistema penale percepito come costitutivo della realtà del crimine. Di ciò si identificano varie sfumature, che vanno dall’abolizionismo penale a una sua forma più attenuata detta istituzionale fino a prospettive che si propongono varie forme di riduzione dell’intervento penale. Ben pochi tra gli studiosi più attenti potrebbero non condividere di questo abolizionismo la presa di distanze dal sistema vigente della giustizia penale, sia per i suoi fondamenti empirici che per la sua fondazione morale.

Viceversa nell’abolizionismo radicale qualcuno ha obiettato che l’abolizione del diritto penale dovrebbe essere preceduta dall’abolizione della criminalità. Questo attacco inverso all’universo critico è portato dal cosiddetto realismo di sinistra, indirizzo di pensiero specificatamente britannico. Esso rivendica caratteri ben distinti rispetto agli altri tre filoni teorici ritenuti predominanti nella criminologia dell’ultimo decennio, diversissimi tra loro ma accomunati dal tentativo di risolvere il problema eziologico e penale.

Il realismo di destra di Wilson è più problematico: non nega la causalità ma concepisce di fatto una molteplicità di cause. Ciò che nega è la causa del crimine più afferrabile: la diseguaglianza nella ricchezza e nel potere. Il realismo di sinistra è mosso dall’esigenza di riflettere sulla realtà della criminalità e di fornire risposte ai problemi della criminalità e del controllo penale. Accade così nuovamente che il cambiamento di prospettiva ruoti attorno al recupero di una componente del fenomeno criminale smarrita lungo la strada delle sopravvenute teorizzazioni.

L’oggetto della criminologia è quel fondamentale triangolo di relazioni: il reo, lo Stato, la vittima. La criminologia viene invitata a recuperare la fedeltà al suo oggetto, alla natura del crimine, alla forma, il contesto sociale, la configurazione, la traiettoria nel tempo e la realizzazione nello spazio. I realisti mirano a superare la parzialità e gli unilateralismi messi in luce dalle criminologie del passato. Insieme alla realtà del crimine si riscontra anche un certo recupero della ricerca sulle sue cause.

La deprivazione relativa è evidentemente un ritrovato teorico che cerca di rispondere alla crisi eziologica e ai fattori che l’hanno determinata. Nondimeno si insiste sul distacco che l’individuazione di questo fattore manifesterebbe rispetto alla tradizione eziologica: esso non porterebbe automaticamente al crimine ma solo in presenza di certe condizioni quando cioè vi siano persone non necessariamente povere che vivono un livello di ingiustizia nell’allocazione delle risorse e fanno ricorso a mezzi individualistici per cercare di rimediare alla loro situazione.

Anche gli esiti politico-criminali del filone realista al pari di quelli teorici non segnalano alcun vistoso rovesciamento di prospettiva. Ci si muove sull’idea della prevenzione o di extrema ratio inseriti in una più consapevole cornice di penetrazione e comprensione del crimine come fenomeno complesso. L’interesse per la piattaforma propositiva realista si localizza dunque nel metodo, nell’invito a prendere sul serio il problema criminale. Il ventaglio degli interventi si distanzia soprattutto dal loro unilateralismo. Non nuova è l’insistenza dei realisti sulle misure alternative alla pena detentiva e sul controllo del crimine coinvolgendo tutta le comunità.

Generale consapevolezza dello stretto legame tra crimine e politica, chiaro retaggio della nuova criminologia. Una valutazione conclusiva sarebbe resa difficoltosa, nella oggettivazione della prospettiva derivante dal cambio di paradigma prodotto dagli indirizzi critici e nel connesso ridimensionamento della prevalente tendenza all’analisi per autori propria della matrice positivista, potrebbe vedersi almeno un parziale ritorno alla versione classica. La differenza risiede nella diversa disponibilità dei due filoni a porre in discussione le opzioni del giudice e del legislatore e trarre alimento per additare gli squilibri e le disuguaglianze individuali e sociali della criminalizzazione in astratto e in concreto.

Con il portare a estreme conseguenze la spinta verso i fatti impressa dalla matrice positivista, la prospettiva critica ha contribuito indubbiamente al progresso registrato dalla criminologia in anni recenti sotto forma di un ampliamento rilevante del suo oggetto. L’apporto della nuova criminologia ha influito sulla complessiva criticità nella criminologia non più disposta a prendere per buono il prodotto finale dell’operazione delle agenzie di controllo. Un tale assorbimento dell’impatto prodotto dai nuovi filoni è apparso come una sorta di normalizzazione tale da smussarne il potenziale critico e da ridurne la portata.

 

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