Il concordato del 1929 stabiliva che le cause concernenti la nullità del matrimonio erano riservate alla competenza dei tribunali ecclesiastici. Con l’Accordo del 1984, la Chiesa non ha avuto la forza di far ripetere la formula del precedente concordato e l’interrogativo è allora questo: sussiste ancora detta riserva, oppure essa è venuta meno?

La risposta all’interrogativo dipende perciò, effettivamente, solo dalla scelta se interpretare l’Accordo del 1984 nel segno della frattura oppure nel segno della continuità. La Corte di Cassazione ha scelto la prima linea di interpretazione. Il punto di partenza è costituito dall’art. 13 n. 1 dell’Accordo 1984, il quale stabilisce che le disposizioni del concordato precedente non riprodotte nel nuovo testo “sono abrogate”; è venuta meno la riserva della giurisdizione ecclesiastica, di modo che “il giudice italiano, in quanto preventivamente adito, può giudicare sulla domanda di nullità di un matrimonio concordatario”.

In questo modo viene realizzato un maggior rispetto non solo del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., ma anche del principio di libertà religiosa: era infatti assurdo imporre ai soggetti di rimanere “vincolati alla giurisdizione ecclesiastica anche se, dopo il matrimonio, si siano allontanati dalla Chiesa o abbiano celebrato le nozze in sede religiosa solo per conformarsi all’uso sociale”.

La Corte costituzionale ha invece scelto la linea di interpretazione nel segno della continuità, nel senso cioè che “le nuove disposizioni rispecchiano il permanere” del sistema precedente, per cui, essendo l’atto di matrimonio religioso disciplinato dal diritto canonico, “è logico corollario che le controversie sulla sua validità siano riservate alla cognizione degli organi giurisdizionali” dell’ordinamento canonico.

In conclusione, anche in materia di nullità matrimoniale esiste il “concorso tra giurisdizione italiana e giurisdizione ecclesiastica, da risolversi mediante il criterio della prevenzione”.

Una volta affermata la competenza del giudice statuale in ordine al controllo della validità del vincolo matrimoniale religioso, occorre precisare quale diritto sostanziale il giudice statale debba applicare nel pronunciarsi sulla domanda di nullità di un matrimonio canonico.

Nelle sentenze emanate dopo l’enunciazione di principio della Corte di Cassazione, si è dato per scontato che il giudice italiano, nel giudicare sulla nullità del matrimonio concordatario, debba applicare la legge sostanziale italiana e non quella canonica.

Le soluzioni differenti cui può legittimamente condurre l’interpretazione dei criteri di collegamento possono essere superate perché, al di là di questi criteri, ci pare esista una indicazione più diretta dell’ordinamento cui ricollegare la fattispecie. E veramente, l’art. 8 n. 1 del nuovo Accordo quando dice che sono riconosciuti effetti civili “ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico” danno una precisa indicazione circa la normativa da applicare, che è quella canonistica.

Sempre il giudice civile applica il diritto di un altro ordinamento, quando la natura della controversia lo richiede, né in linea di principio vi è contraddizione fra giurisdizione riconosciuta al giudice italiano e utilizzazione di un diritto sostanziale non italiano.

Se invece al cittadino italiano stanno maggiormente a cuore gli interessi che il matrimonio suscita nell’ordinamento della Chiesa, allora appare ragionevole di consentirgli di sottoporre la verifica della ricorrenza delle condizioni di validità del consenso matrimoniale agli organi giudiziali di quello stesso ordinamento cui si fa rinvio per la disciplina sostanziale del consenso.

L’art. 8 n. 2 dell’Accordo 1984 stabilisce che le sentenze di nullità matrimoniale emanate dai tribunali ecclesiastici “sono, su domanda delle parti di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d’Appello competente”. Viene cioè ricalcato e adattato il tradizionale procedimento di delibazione per le sentenze straniere.

Senonché, è entrata in vigore la legge n. 218 del 1985, che rivoluziona praticamente le logiche e le ideologie, “la sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”. Cade dunque, per la normalità dei casi, il vetusto procedimento di delibazione.

 

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