La responsabilità civile è divenuta spècola privilegiata di lettura dell’intero ordinamento.

Essendo collocata a cavaliere tra lecito ed illecito, tra libertà e limiti, la responsabilità civile è entrata in risonanza appena una società propensa alla mobilità dei suoi equilibri ha cominciato a rivelare le sue attitudini, e perciò a mettere in questione l’adeguatezza di quelle norme del Titolo IX (Dei fatti illeciti), Libro IV (Delle obbligazioni), del Codice civile, che un legislatore ottimista aveva affidato alla storia.

La dottrina, dal canto suo, ha reso la responsabilità civile cosciente di questo suo essere l’istituto giuridico di primo impatto sul quale si riflette in presa diretta il mutamento sociale.

Anche la giurisprudenza, sollecitata ad una tutela che superasse i vecchi schemi della responsabilità per colpa e del danno come lesione di un diritto soggettivo, ha acquistato coscienza di ciò.

Il congelamento della disciplina dei fatti illeciti così come adottata dal codice del 1942 rafforzò per parecchio tempo il paradigma al quale la dottrina dovette fare capo e che nell’intenzione del legislatore coincideva ancora col principio jheringhiano “senza colpa, nessuna responsabilità”.

Il discorso si è fratto in due ambiti:

a. quello degli interessi protetti: alla tesi che “danno ingiusto” sia una clausola generale si è contrapposta quella secondo cui si tratterebbe di una espressione generale che ha come referente la lesione di ogni situazione giuridica previamente riconosciuta dall’ordinamento;

b. quello dei criteri di imputazione: alla riscoperta della responsabilità oggettiva è apparso a taluno (ad es. Francesco Donato Busnelli) che ne fosse seguita una qualche enfatizzazione rispetto alla quale occorresse far valere un recupero della colpa alla sua esatta dimensione.

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