I commentatori che studiarono le norme del codice dopo l’entrata in vigore della Costituzione, tacciarono la catalogazione del codice come operazione di facciata priva di risvolti sostanziali. Essi non si sentirono vincolati a un preminente interesse di natura pubblicistica, e si liberarono dell’idea che i reati sessuali potessero offendere un bene diverso da quello della libertà sessuale. Non ci si sentì più condizionati dalla subordinazione della libertà sessuale al bene moralità pubblica – buon costume.
Decolla l’opinione che considera la libertà sessuale l’oggettività giuridica esclusiva del reato sessuale. La libertà sessuale viene vista con un contenuto positivo ed uno negativo:
quello positivo consiste nella facoltà di piena ed illimitata esplicazione delle proprie inclinazioni sessuali. Quello negativo consiste nell’impedire che il proprio corpo possa essere strumentalizzato da altri senza consenso per soddisfacimento sessuale. Ed è sul contenuto negativo che si appunto la tutela penale volta a garantire che l’attività sessuale della persona sia frutto di una libera scelta individuale.
Nonostante quindi le ambiguità dovute alla classificazione codicistica, la dottrina considerava come punto di riferimento del contenuto offensivo del reato sessuale, la sola libertà sessuale come autonomo diritto della persona. Anche se la scelta del legislatore del 1930 sia stata nel corso degli anni neutralizzata da una lettura delle norme conforme alla Costituzione, dal legislatore della riforma non poteva che attendersi la necessaria modifica.