I termini del problema che si ponevano di fronte ai giudici della Cassazione, in riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 3776 del 1979, riguardavano l’incidenza della svalutazione monetaria sul pagamento tardivo dei debiti pecuniari ossia di debiti che sono sin dall’inizio espressi in somma di denaro e per i quali invece cale il principio della immutabilità della somma nominalmente dovuta quale che sia il mutato potere di acquisto della moneta tempore solutionis, principio questo che, anche se non espressamente sancito, sicuramente risulta essere presupposto nell’art. 1277 del codice. Le sezioni unite della Cassazione sono state chiamate a mitigare le conseguenze di un indirizzo troppo liberale di precedente pronuncia (quella n. 5670 del 1978) ed hanno così tentato un’opera di non facile mediazione tra l’alternativa di dover riconfermare un orientamento tradizionale troppo rigoroso nei riguardi dei creditori ed uno più liberale cui poteva rivolgersi un uso disinvolto di principi e criteri stabilmente radicati nel nostro sistema.

I limiti opposti dal sistema ad una considerazione della svalutazione monetaria sono rappresentati massimamente dall’esistenza di un principio nominalistico che non governa soltanto i pagamenti puntuali ma anche quelli tardivi, dacché la norma contenuta nell’art. 1277 fa riferimento al tempo del pagamento e non a quello della scadenza. L’ultra-efficacia del principio non è mai stata dubitata in dottrina: né è sicura testimonianza anche la tradizione codicistica la quale proprio in ragione del fatto che limitava il risarcimento dei danni da mora alla sola attribuzione degli interessi legali (art. 1231 codice del 1865), era definita di applicazione eccezionale da un autorevole scrittore e non estendibile oltre l’ambito per la quale era stata dettata.

L’altra variante alla tesi è quella che ragiona nei termini di una obbligazione risarcitoria di valore che subentra  a quella originariamente di valuta e ciò secondo il modello del debito di valore che ha carattere sostitutivo di debito primario inadempiuto. È questa un’altra tentazione cui potrebbe indurre una lettura indifferenziata di quelli che sono gli effetti del pagamento tardivo. Ma vi è una risposta anche su questo terreno. Ed è quella che ribadisce l’inammissibilità di una equiparazione del debito pecuniario a quello di cose e postulandosi una sorta di perimento dell’oggetto a rischio del debitore per effetto della svalutazione (art. 1221). Vero invece che il ritardo nel pagamento lascia inalterato il debito pecuniario originario, definito da taluno indistruttibile questo aggiungendosi soltanto l’obbligazione di interessi e quella di maggior danno.

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