A poca distanza di tempo dalla pronuncia con la quale si era ribadito il principio secondo cui, in materia di ritardo nel pagamento di somme pecuniarie, il rilievo della svalutazione monetaria è condizionato alla prova che deve dare il creditore di aver risentito un particolare pregiudizio per non aver potuto disporre, in modo da sottrarla alla svalutazione monetaria, della somma a lui dovuta, il cui reimpiego era stato effettivamente apprestato e concretamente predisposto, è intervenuta pronuncia che ha affermato l’opposto. La via scelta dalla Corte di cassazione  con la sentenza n. 5670 del 1978 per superare un indirizzo trentennale può apparire abbastanza insolita, consistendo essa nel tenere fermo questo indirizzo quando il creditore abbia chiesto il risarcimento del mancato guadagno e nel considerarlo invece indifendibile quando il creditore si sia limitato a chiedere il risarcimento della perdita subita.

Sembra che la ratio decidendi posta a base della pronuncia della Cassazione distingua tra la richiesta del danno emergente e\o invece del lucro cessante, risarcibile il primo senza particolare onere probatorio, risarcibile invece il secondo ma a condizione che il creditore dimostri di avere seriamente programmato un reimpiego della somma. Tale indirizzo solleva dubbi in ordine alla fedeltà rispetto a quello che si può definire un vero e proprio topos della letteratura giuridica sull’incidenza della svalutazione monetaria nel pagamento dei debiti pecuniari. Quando si assegna alla svalutazione la rilevanza del danno emergente, danno che sarà a carico del debitore inadempiente, si viene a negare implicitamente il principio secondo cui tra la somma dovuta e quella pagata vi è un rigoroso rapporto di identità.

La novità dell’indirizzo è comunque nel fatto che esso non ha riguardo a debito risarcitorio ma a debito di valuta di cui si lamenta il pagamento tardivo con moneta medio tempore svalutata. Anche tale pronuncia è sensibile al facile argomento secondo cui l’originario debito di valuta si sarebbe trasformato in debito di valore. L’asserita trasformazione, se può certamente valere con riguardo ad ipotesi di danno diverse dalla svalutazione non può valere per la svalutazione considerata in se stessa.

Il nuovo indirizzo, inaugurato con la sentenza n. 5760 del 1978 non potrà non indurre gli interpreti ad una riflessione sul ruolo che può esercitare l’interpretazione dei giudici in merito a materia così delicata, quale quella da assegnare alla svalutazione monetaria nei rapporti tra privati e in un ordinamento che, come il nostro, ha espressamente codificato il principio nominalistico, (1277) avendolo ritenuto il più rispondente ad una esigenza razionale della vita economica. Si tende a ribadire il principio secondo cui, in materia di rapporti di scambio e cioè con riguardo all’estinzione di crediti di lunga durata, non sono ammissibili misure rivalutative, ma bisogna tener fede al vigore del principio che rende costanti ed immutabili le ragioni di scambio.

La discussione è andata al di là dell’amministrazione dei singoli rapporti tra privati, per investire il più generale problema dei limiti che incontra il potere dei giudici in un settore, quale quello monetario, che appare sin troppo legato a più generali scelte di politica economica. Non si è mancato di ribadire in varie occasioni l’esclusiva competenza del legislatore in ordine all’introduzione di misure rivalutative di crediti deprezzati, perché è l’unico organo ad essere democraticamente legittimato a verificare il grado di compatibilità tra le misure di rivalutazione e le esigenze di stabilità del sistema.

Segni di maggiore vivacità doveva fornire la giurisprudenza in materia di debiti di valore che è la categoria caratterizzata dal fatto che l’entità del debito non è nominalmente fissata a priori ma resta aperta e sensibile al mutato potere di acquisto della moneta in ordine al bene o al valore che si vuole assicurare al creditore e dove dunque il conflitto debitore e creditore non si presenta risolto nel momento stesso del sorgere del debito ma è rinviato al momento successivo della concreta liquidazione di esso. È così potuto apparire che una tale esigenza garantista degli interessi dei danneggiati postulasse il richiamo di una diversità di disciplina e\o di regime tra debiti pecuniari.

Un indirizzo più riduttivo e pragmatico, emerso negli anni ’50, proponeva invece di riassorbire tale problema in quello riguardante l’individuazione del momento al quale riferire la valutazione e liquidazione del danno da risarcire. Il principio che ormai tende ad essere massima da tramandarsi è quello del massimo di tutela offerto ai soggetti danneggiati e alle obbligazioni relative. Si teorizza la regola che solo per le obbligazioni intrinsecamente pecuniarie sono tollerabili limiti al principio dell’integrale risarcibilità del danno prodotto dall’inadempimento. Tale prassi giurisprudenziale ha accolto la tesi della natura di debito contrattuale di valuta di tali somme.

In un tale contesto non può non inserirsi una riflessione sull’interpretazione e sulla prassi vigente in materia di somme dovute dall’assicuratore per rivalere l’assicurato di un danno e per pagare allo stesso un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (1882). E non può apparire una contraddizione crescente quella insita in un indirizzo giurisprudenziale consolidato che tiene stabile e ferma la frontiera del debito di valore delle somme dovute all’assicuratore perché aventi ad oggetto il risarcimento di un danno e non apparendo a tale scopo preclusivo il riferimento ad un determinato massimale per le indennità connesse a vicende riguardanti la persona o la vita dell’assicurato considera invece invalicabile la frontiera del debito di valuta. Il criterio della natura e della fonte contrattuale del debito, quale limite preclusivo ad una sensibilizzazione del debito ai fenomeni di deprezzamento monetario, è un criterio sempre meno attendibile in un contesto normativo che sembra voler riservare attenzione alla particolare funzione dei singoli debiti.

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