Nei primi dodici anni, definiti «periodo transitorio», la Comunità si è sforzata di realizzare gli obiettivi prioritari ad essa affidati creando un mercato comune in tutti i settori economici mediante la realizzazione, all’interno della Comunità, delle «quattro libertà» (circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali), l’imposizione di regole di concorrenza agli Stati (controllo degli aiuti elargiti con fondi pubblici) e soprattutto alle imprese (lotta contro le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizioni dominanti) e, alle frontiere esterne, mediante la fissazione di una tariffa doganale comune; realizzando altresì alcune politiche comuni, in particolare organizzando una politica agricola intesa a proteggere i produttori dall’instabilità dei mercati e dei prezzi e realizzando una politica commerciale «esterna».
I progressi realizzati così rapidamente – dopo ci si rese conto, tuttavia, che era apparenza più che sostanza (anche perché un mercato dei capitali non era stato realizzato) – convinsero i sei Stati membri che era giunto il momento di accelerare l’instaurazione del mercato comune rispetto alle tappe previste. La Commissione, presieduta dal tedesco Hallstein – sua l’immagine della Comunità come un razzo a tre stadi: l’unione doganale doveva lanciare l’unione economica e questa l’unione politica nella struttura di uno Stato federale o di una confederazione di cui lui, come presidente della Commissione, era il capo predestinato – ritenne giunto il momento di proporre:
a) il finanziamento integrale, da parte della Comunità, delle spese della politica agricola comune, facendo della Comunità, che fissava i prezzi e le altre misure di sostegno, il soggetto responsabile delle eventuali eccedenze e delle spese necessarie per riassorbirle all’interno (con intervento sui mercati) o all’esterno (col pagamento di restituzioni alle esportazioni);
b) una riforma del regime finanziario consistente nella sostituzione dei contributi degli Stati membri con «risorse proprie» della Comunità, costituite dai dazi doganali e dai prelievi agricoli riscossi all’importazione (v’era, per questo, il precedente della storia degli Stati Uniti e della Germania dove i dazi doganali avevano costituito la prima risorsa finanziaria federale);
c) un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo.
Una brusca frenata arrivò il 30 giugno 1965 quando la Francia, adducendo come pretesto le riserve di taluni partners al finanziamento integrale della politica agricola comune, rifiutò per sette mesi di sedere al tavolo del Consiglio impedendo a quest’ultimo di prendere qualsiasi decisione. Alla fine fu lei a spuntarla perché la ripresa della sua partecipazione ai lavori della Comunità avvenne con la rinuncia ad alcuni aspetti essenziali della sopranazionalità.
Intanto il 1° luglio 1968 vennero perfezionate l’unione doganale nel settore industriale e la libera circolazione della maggior parte dei prodotti agricoli. Il finanziamento integrale della politica agricola comune (Pac) fu realizzato per l’essenziale nel 1967 e perfezionato nel 1970.
Il dinamismo della Comunità ed il suo successo proponevano l’idea di un allargamento e di un’estensione ratione materiae, cioè a settori inizialmente non previsti ma rilevantissimi per l’integrazione degli Stati.
Allargamento significava in quegli anni una cosa sola: la Gran Bretagna.
Il Regno Unito non era voluto entrare a far parte della Comunità dei sei parendogli troppo impegnativa: l’aveva anzi combattuta contrapponendo ad essa l’Associazione europea di libero scambio (comunemente detta all’inglese EFTA) costituita insieme a sei altri Stati (Irlanda, Portogallo, Austria, Svizzera, Svezia, Danimarca) nella forma di una semplice zona di libero scambio. L’EFTA consentiva ai governanti di Londra di salvare il sistema delle «preferenze imperiali», cioè il rapporto privilegiato di scambio con le ex colonie consistente nell’inviare ad esse i prodotti industriali della metropoli ricevendone i prodotti agricoli. Quando finalmente l’Inghilterra si decise a bussare alla porta della Comunità, l’attendeva l’umiliazione di essere respinta dal generale de Gaulle: la prima volta nel 1963, la seconda nel 1967.
Si dovette attendere che il successore di de Gaulle, il presidente Pompidou, togliesse il veto. Le trattative con il Regno Unito furono aperte nel 1969 e la firma del trattato di adesione poté aver luogo il 22 gennaio 1972.
Le speranze riposte dagli europeisti nell’ingresso degli inglesi – dal cui pragmatismo si attendeva un nuovo impulso per la Comunità piuttosto stagnante – non tardarono ad essere deluse. Non ci volle molto perché l’Inghilterra svelasse chiaramente la stessa avversione per il principio sovrannazionale che era già stata caratteristica della Francia di de Gaulle: a fianco del concetto dell’«Europa delle patrie» del Generale, che rivelava il proposito di non rinunziare in alcun modo alla sovranità dello Stato, venne a porsi con effetti ugualmente nocivi la concezione inglese della Comunità come un semplice club di cooperazione economica.
Prima ancora che la delusione si facesse generale, intervenne la grande crisi provocata dal primo shock petrolifero (le restrizioni di produzione decise nell’ottobre 1973 dai Paesi arabi, accompagnate in un primo tempo dall’embargo totale delle forniture ai Paesi Bassi e da un improvviso vertiginoso aumento del prezzo del petrolio).
La crisi petrolifera pose bruscamente fine al boom economico mondiale degli anni sessanta che aveva contribuito in maniera non indifferente al successo della Comunità. Questa si rivelò incapace, come struttura integrata, di controllare la situazione di crisi e gli Stati membri si disposero in ordine sparso pensando ciascuno al proprio approvvigionamento petrolifero e al modo di uscire dalla crisi. La Commissione non trascurò di presentare proprie proposte per assicurare il flusso del petrolio ma ogni membro preferì fare da sé.
Un rilancio politico dell’Europa fu reso possibile dalla venuta al potere nel maggio 1974 in Francia del presidente Giscard d’Estaing e in Germania del cancelliere Schmidt.
Nel 1975 la questione della «rinegoziazione» britannica è definitivamente chiusa quando il referendum svoltosi nel giugno in Gran Bretagna dà il 67,2% di voti favorevoli alla permanenza nella Comunità.
A Giscard e Schmidt si deve anche la ripresa di un progetto d’integrazione monetaria.
Anche in questo campo si erano avute amare delusioni. Il volume enorme degli scambi commerciali nel mondo del dopoguerra e la generalizzazione del multilateralismo (in contrasto con il bilateralismo degli anni tra le due guerre mondiali) hanno fatto assumere alle «parità» monetarie un valore decisivo: non solo per i paesi le cui monete sono liberamente convertibili, ma anche per i paesi estranei, dal momento che questi ultimi dipendono dagli scambi commerciali con i primi in maniera molto superiore a quello che risulta dalla percentuale degli scambi rispetto al prodotto nazionale.
I rapporti monetari erano stati tranquilli sinché fu in vigore il sistema elaborato alla fine della prima guerra mondiale che passa sotto il nome di Bretton Woods: cambi fissi (con la possibilità di aggiustamenti, peraltro rari) delle monete convertibili tra di loro mentre il dollaro garantiva il sistema essendosi gli USA impegnati ad acquistare e vendere oro a 35 dollari per oncia (ciò significava che il dollaro era considerato buono come l’oro!). Nella pratica di 25 anni di rapporti commerciali intensissimi, il sistema fu applicato con una direttiva ulteriore: quella di tenere l’oro basso (la repulsione verso l’oro – il «relitto barbarico» – del grande economista Keynes, il padre di Bretton Woods, si sposava al desiderio degli Stati industrializzati occidentali di non «fare regali» all’URSS ed al Sudafrica, i principali produttori del metallo giallo).
Questo sistema entrò in crisi alla fine degli anni sessanta quando si percepì quasi di colpo che vi era una massa enorme di dollari stampati per finanziare le ingenti spese delle operazioni militari americane nel Vietnam. Cominciò la corsa al Tesoro americano per far cambiare i dollari in oro e gli Stati Uniti furono costretti a sospendere la convertibilità (15 agosto 1971).
Fu così creato il Sistema monetario europeo, SME (13 marzo 1979) avente lo scopo sia di rendere stabili i cambi combattendo la politica delle svalutazioni, sia di creare progressivamente una moneta europea da contrapporre al dollaro ed allo yen (un’altra finalità, che non fu attuata, era quella di creare dei meccanismi di credito).
In tal modo è nato l’ecu, che è la sigla, pronunciata come acronimo, di European Currency Unit, ma è anche il termine francese (= scudo) per una moneta antica, diffusa in vari paesi e coniata in oro o in argento.
L’ecu è un «paniere» delle monete degli Stati membri scelte in una quantità che tiene conto dell’importanza che ha il sistema economico di ogni singolo Stato all’interno della Comunità. Prima della crisi monetaria del settembre 1992, l’ecu era costituito da 60 Pfennig tedeschi (il 30% circa del valore complessivo dell’ecu), franchi francesi 1,30 (= 19%), 150 lire (= 10%), 0,09 sterline (= 12%) e valeva 1500 lire circa (oggi ne vale 1900). Ogni volta che una di queste monete si svaluta (o si rivaluta) anche il valore dell’ecu si modifica corrispondentemente, cioè per quella parte di esso che è costituita dalla moneta in questione. Le componenti del paniere venivano rivedute ogni 5 anni. Ora l’art. 118 (già 109 G) vieta di modificarle.
Voluto soprattutto dal cancelliere tedesco Schmidt (al quale si associò il presidente francese Giscard d’Estaing) preoccupato per il continuo riapprezzamento del dollaro, lo SME fu creato al di fuori degli organi comunitari.
Ogni moneta aveva un cambio in ecu determinato con precisione, ma siccome l’ecu non era una moneta reale, ciò si traduceva in una serie di parità bilaterali tra le varie monete. Inizialmente, queste parità potevano oscillare, seguendo le leggi del mercato, in su o in giù sino al 2,25%. Se l’oscillazione superava questi limiti dovevano intervenire le banche centrali degli Stati e se le oscillazioni proseguivano esse disponevano un «riallineamento» (realignment). Ciò è accaduto molte volte. A seguito della crisi valutaria del 1992, il margine di oscillazione è salito al 15%.
L’importanza dell’ecu stava quindi nel ridurre il «rischio del cambio» (chi compera merci o servizi in Germania subisce una perdita secca se nel frattempo la lira italiana viene svalutata). Questo è il motivo per cui l’ecu si è affermato sul mercato delle obbligazioni: ne hanno fatto uso istituzioni internazionali per evitare l’impiego del dollaro e governi (come quello italiano e quello francese) per assicurare una certa stabilità alle loro transazioni commerciali.
Una significativa evoluzione del regime giuridico della Comunità – come ora si dice brevemente, intendendo l’insieme delle tre Comunità (in questo senso anche una risoluzione del Parlamento europeo del 13 marzo 1978) – è stata provocata dall’introduzione delle «risorse proprie della Comunità», cioè dalla sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie della Comunità, realizzata a partire dal 1° gennaio 1979.
Le risorse proprie sono costituite in primo luogo dai prelievi agricoli sui prodotti importati da paesi terzi (per compensare la differenza tra i prezzi mondiali – inferiori – e quelli comunitari) e dai dazi doganali riscossi ai confini esterni della Comunità: i primi, che oggi rappresentano all’incirca un quarto degli introiti della Comunità, sono diventati risorse proprie nel 1971, i secondi, che fanno oggi il 17%, nel 1975.
Il completamento di entrate necessario per garantire l’equilibrio del bilancio (prima realizzato mediante contributi nazionali) è stato in seguito coperto da una nuova risorsa propria costituita da una parte dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) prevista negli Stati membri, entro il limite dell’1,4% della base imponibile dell’imposta.
Poiché l’IVA ha carattere «regressivo» – colpisce cioè, comparativamente, più gli Stati poveri che devono dare una parte maggiore del loro prodotto ai consumi – per diminuirla è stata introdotta nel 1988 (e modificata nel 1994) la «risorsa PNL» (prodotto nazionale lordo): una percentuale del PNL di ogni singolo paese membro che è stata fissata, nel 1999, all’1%. Questa risorsa copre circa il 60% delle entrate comunitarie ed è destinata a progredire prendendo il posto della risorsa IVA e facendo sì che le risorse versate dagli Stati membri corrispondano alle capacità contributive di ciascuno.
Le risorse proprie della Comunità vengono riscosse dagli Stati membri conformemente alle disposizioni legislative o amministrative nazionali e vengono quindi poste a disposizione della Comunità. Questa poi corrisponde ad ogni Stato il 10% delle somme introitate (tranne l’IVA) per compensarlo delle spese di riscossione.
Il Trattato di Lussemburgo ed il successivo Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975 (che ha istituito anche la Corte dei conti) conferiscono al Parlamento europeo il potere di pronunciarsi sulle spese dette «non obbligatorie» in quanto non derivanti obbligatoriamente dal Trattato e dagli atti delle istituzioni. Per le spese obbligatorie il Parlamento può solo proporre degli «emendamenti».
Nel 1979 si ebbe anche l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto: un avvenimento di risonanza mondiale. Solo molto lentamente, tuttavia, la nuova istituzione riuscirà a conquistarsi un posto nel processo legislativo europeo.
Sul piano istituzionale la struttura della Comunità era rimasta sostanzialmente quella dei Trattati di Roma del 1957, anche se la fisionomia di essa era cambiata sotto la pressione delle circostanze (qualche riforma importante si è avuta con l’Atto unico europeo).
Al Consiglio, espressione dei governi degli Stati membri ma «integrato» nella Comunità, si è sovrapposto – già prima dell’Atto unico europeo – il Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo, che si riunisce due volte l’anno per trattare gli affari che ritiene molto importanti e dare orientamenti politici di portata generale (anche al di fuori delle competenze della Comunità).
Quanto alla Commissione, anche nei campi in cui possiede delle competenze esclusive (come la negoziazione di un trattato internazionale o la repressione delle intese limitative della concorrenza aventi effetti che toccano più Stati membri) o comunque decisive dal punto di vista economico (valga per tutti l’agricoltura), essa ha dei poteri pur sempre limitati: il suo ampliamento a 20 membri teoricamente indipendenti l’ha indebolita ulteriormente, facendone spesso il teatro di contese tra interessi nazionali discordanti.