Il mutamento costituzionale, dovuto al passaggio dalla monarchia alla Repubblica, portò ad una netta separazione tra funzioni religiose e quelle politico-militari, anteriormente riunite nella persona del sovrano.
La suprema dignità sacerdotale passò al rex sacrorum e più tardi al capo del collegio dei pontefici, il pontifex masimus.
Il comando militare venne attribuito al primo magistrato della Repubblica, con conseguente facoltà di esercitare il potere di coercitio, tipica manifestazione dell’imperium.
- il pontefice Massimo ereditò dall’antico monarca la giurisdizione sui reati di indole religiosa
- i crimini che colpivano sia la religione che il populus furono rimessi all’assemblea popolare
Altri illeciti non vennero più perseguiti giudizialmente, ma semplicemente sanzionati attraverso il regimen morum dei censori. Anche al pontefice spettava un diritto di coercizione: imporre multe ai sacerdoti contravvenienti ai suoi ordini.
Si cercò inoltre di limitare il potere del supremo magistrato, per impedire ogni tentativo di tirannide o sopraffazione verso i cittadini. L’irrogazione delle più gravi misure repressive, tra cui la pena di morte, venne subordinata al giudizio del popolo riunito in assemblea; nacque così la provocatio ad populum:
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istituto portante della costituzione repubblicana
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con cui il cittadino perseguito in via di coercizione dal magistrato poteva sottrarsi a morte e fustigazione, chiedendo l’instaurazione di un processo dinanzi ai comitia
Probabilmente la provocatio era un il rimedio introdotto dal patriziato per cautelarsi dai possibili abusi dei magistrati. Tale rimedio era teoricamente aperto anche ai plebei, facenti parte del popolus romanus come i patrizi, ma in pratica risultava per gli stessi di difficile utilizzo poiché il monopolio del potere era in mano ai patrizi.
Si discute sulla data in cui venne introdotto questo rimedio; le fonti richiamano tre diverse leggi de provocatione:
- Lex Valeria – 509 a.C.: approvata dai comizi centuriati su proposta del console Valerio Publicola, l’anno stesso della fondazione della Repubblica, con cui fu stabilito che: nessun magistrato poteva fustigare e mettere a morte un cittadino romano che avesse “provocato” al popolo. Tale legge consentiva il ricorso al popolo solo contro l’estremo supplizio.
- Lex Valeria Horatia – 449 a.C.: vietava la creazione di magistrature esenti da provocazione
- Lex Valeria – 300 a.C.: ascritta al console Valerio Corvo, con contenuto analogo a quella del 509, ma contenente una sanzione più efficace: è meritevole di riprovazione l’atto del magistrato che, violandone il precetto, fa fustigare e uccidere un cittadino in onta alla provocatio
L’ultima delle tre leggi è incontestabilmente storica; sembra difficile che le due leggi precedenti non siano solo proiezioni nel passato della terza. È comunque possibile che in epoca tarda esistessero tutt’e tre le norme attinenti alla stessa materia. Probabilmente la rinnovazione in più battute della stessa norma è dovuta alla sua necessaria ripetizione nel tempo per limitare il potere dei patrizi, che gravava sulla libertà della plebe come sostenuto da Livio.
Quasi sicuramente il magistrato era il più delle volte costretto a cedere alla provocazione dinanzi all’istanza di un patrizio. Frequente, invece, doveva essere il caso in cui il plebeo fosse messo a morte senza rispettare la sua richiesta di un processo comiziale. Le fonti, infatti, registrano numerosi casi di ribellione popolare contro diversi magistrati che non volevano cedere alla provocatio.
I consoli, nonostante il precetto legislativo, potevano comunque disattendere impunemente la provocazione.
Infatti, la terza legge si limitava a dichiarare l’atto di violazione del magistrato improbe factum, ossia oggetto di semplice riprovazione morale. Ciò rende verosimile che le più antiche leggi in materia fossero leges imperfectae, che non comminavano pena alcuna per il trasgressore; perciò il ius provocationis riconosciuto al plebeo contro la coercitio magistratuale doveva ridursi il più delle volte ad una garanzia meramente platonica.