La fonte ordinaria normativa interna è costituita dalla L. 300 del 1970, il c.d. statuto dei lavoratori, il cui titolo II è espressamente intitolato alla libertà sindacale.  In tale legge concorsero tre obiettivi:

  1. tutela della libertà e della dignità del lavoratore con riferimento a situazioni repressive che possono verificarsi dell’impresa; essendo quest’ultima un’organizzazione basata sul principio di autorità, possono in essa crearsi situazioni di compressione della libertà e della dignità di chi vi lavora in posizione subordinata: era quindi opportuno un intervento del legislatore per la salvaguardia di questi valori in determinati aspetti della vita aziendale, quali l’uso della polizia privata nelle fabbriche (art. 2), le perquisizioni personali (art. 6), l’uso di strumenti del controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (art. 4), l’esercizio del potere disciplinare (art. 7), l’assunzione di informazioni sui lavoratori (art. 8);
  2. rafforzamento dell’effettività del principio di libertà sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, che viene perseguito vietando all’imprenditore di utilizzare i poteri che gli derivano dal contratto di lavoro per ostacolare, anche indirettamente, i lavoratori nell’esercizio dell’attività di autotutela dei propri interessi (in particolare divieto di atti discriminatori, articoli 15 e 16);
  3. politica di sostegno delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.  La realtà dinamica del conflitto di interessi si confronta all’interno dell’impresa con un potere capace di incidere in via immediata sulla condizione di soggetti ad esso sottoposti; di fronte a ciò, il migliore strumento di tutela è la stessa attiva capacità di contestazione dei soggetti interessati, naturalmente sensibile al mutamento delle condizioni reali e quindi più idonei ad operare valutazioni che la legge, per la sua rigidità strutturale, non sarebbe in grado di operare.

L’art. 14 dello statuto afferma che “il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”.  Tale norma ribadisce un principio che già è apparso evidente alla lettura dell’articolo 39 cost.  In tal modo viene imposta l’efficacia della norma costituzionale non solo nella sfera dei rapporti cittadino-Stato, ma anche nella sfera dei rapporti interprivati.

L’art. 15 sancisce la nullità degli atti discriminatori riproducendo, con opportune integrazioni, la disposizione dell’articolo 1 della convenzione n. 98.  Esso fissa due punti:

a)           stabilisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto a subordinare l’occupazione del lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad un’associazione sindacale, ovvero che cessi di farne parte.  Oltre alla nullità dell’atto, che in molte circostanze può avere scarsa efficacia, è prevista l’applicazione della sanzione penale di cui all’articolo 38 dello stesso statuto dei lavoratori;

b)          sancisce la nullità di qualsiasi patto o atto diretto licenziare un lavoratore, a discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o a recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale, ovvero causa della partecipazione ad uno sciopero.  Per tali atti non è disposta la sanzione penale; il legislatore, infatti, ha ritenuto si trattasse di comportamenti che possono essere efficacemente colpiti attraverso la sanzione civile della nullità.

La norma dispone anche la illiceità della discriminazione compiuta, oltre che per motivi sindacali, per motivi politici o religiosi; a questi la L. n. 903 del 1977 ha aggiunto i motivi di razza, lingua e il sesso.

La discriminazione di carattere sindacale può avvenire, da parte del datore di lavoro, non solo privando il prestatore di lavoro di particolari benefici o arrecandogli comunque danno, bensì, attribuendo particolari benefici ai lavoratori che tengano un determinato comportamento, e condizionandoli, così, nell’esercizio della libertà sindacale.  E’ questa la previsione contenuta nell’art. 16, il quale, appunto, sancisce il divieto di concedere trattamenti economici di maggior favore ad una pluralità di persone.  Un esempio tipico è costituito dai premi che vengano corrisposti ai lavoratori che non abbiano partecipato ad uno sciopero.

Trattamento economico collettivo discriminatorio può considerarsi, tuttavia, non solo quello diretto ad ostacolare in genere all’attività sindacale, bensì anche quello corrisposto per agevolare l’adesione a particolari organizzazioni sindacali che incontrino il favore del datore di lavoro.  Per trattamento economico viene inteso non solo la corresponsione di somme di denaro, bensì qualsiasi concessione valutabile in termini economici.

Il giudice, su domanda dei lavoratori nei cui confronti è stata attuata la discriminazione, accertati i fatti, condanna il datore di lavoro al pagamento, a favore del fondo pensioni dell’Inps, di una somma pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti nel periodo di un anno.  Si tratta, però, di una norma di scarsissima effettività perché i lavoratori che promuovono l’azione non ne traggono alcun beneficio patrimoniale.

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