Infine, tra le “contravvenzioni concernenti la polizia dei costumi”, che tutelano il bene giuridico costituito dai principi fondamentali del pubblico buon costume, ce n’è una che comunque attiene al fattore religioso, in quanto punisce la bestemmia, ossia le “invettive o parole oltraggiose contro la Divinità”.
Il sistema si prospetta altamente problematico in tre diverse prospettive: la prima è quella che attiene alle ripercussioni derivanti dall’abolizione del principio della religione cattolica come religione dello Stato, la seconda che attiene alla individuazione del bene giuridico tutelato dalle norme penali, la terza che attiene alla compatibilità del sistema con i principi dell’art. 3 e dell’art. 8 c. 1° Cost., che esigono una eguaglianza di trattamento.
Per quanto riguarda la prima prospettiva la nozione di religione dello Stato, palesemente contrastante con il principio di laicità dello Stato, è comunque “scomparsa dall’ordinamento giuridico”, giacché l’art. 1 del Prto. Addizionale al Concordato del 1984 stabilisce che “si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti Lateranensi, della religione cattolica come religione dello Stato italiano”.
La Cassazione prima, la Corte Costituzionale poi, hanno sostenuto che l’espressione religione dello Stato costituisce al giorno d’oggi “semplicemente il tramite linguistico per mezzo del quale, ora come allora, viene indicata la religione cattolica”. Di modo che la caduta del riferimento alla religione dello Stato non incide sulla oggettività giuridica del reato: oggetto, ben determinato, della tutela è la religione cattolica.
Per quel che riguarda la seconda prospettiva problematica, ossia la individuazione del bene giuridico tutelato, va tenuto presente che si è avuto un deciso mutamento nel tempo: nell’esperienza giuridica fascista, il codice penale si preoccupa soprattutto di tutelare la religione in senso oggettivo, ossia come fatto istituzionalizzato.
Ecco allora che viene offerta una nuova visione del bene giuridico protetto: si tratterebbe del sentimento religioso in quanto base della libertà religiosa.
Giacché le offese alla sensibilità religiosa non sono tanto quelle che possono concretizzarsi nell’offesa percepita da una singola persona a causa di un vilipendio o di una bestemmia, bensì quelle astrattamente percepibili da un pubblico indeterminato.
È evidente che, in tali casi, invocare una tutela della sensibilità religiosa può equivalere a chiedere il ripristino di forme di censura che comprimerebbero la libertà di manifestazione del pensiero e la libertà dell’arte. Mentre è facile misurare l’entità dell’offesa arrecata ad un bene giuridico di tipo materiale, non lo è affatto misurare l’entità dell’offesa arrecata ad un valore ideale.
Questo spiega la ritrosia dei giudici a condannare per queste figure di reati, ed il numero sempre più esiguo dei procedimenti penali che, in questo campo, arrivano ad una sentenza.
Si può cioè ipotizzare che le offese ad un credo religioso possano produrre effetti negativi sulla personalità individuale degli aderenti a quel credo. Ma la difesa di questi aspetti della personalità umana non può passare attraverso la tutela di un valore ideale ed astratto qual è il sentimento religioso.
Per evitare che il diritto penale sia adoperato come arma di conservazione dei modelli di comportamento sociale consolidati contro ogni fatto che li mette duramente in questione, occorrerebbe sottomettere la tutela del sentimento religioso al criterio personalistico, dare cioè rilievo alle offese alla religione solo quando queste ledono un’esigenza umana così radicata ed essenziale che il danno prodotto possa compromettere lo sviluppo e la strutturazione della personalità.
Ma si tratta di verifiche tutt’altro che semplici e sicure.
Per quanto riguarda la terza prospettiva problematica, bisogna considerare che questi problemi di compatibilità si pongono a due livelli diversi, il primo in quanto vi è una figura di reato, quella del vilipendio c.d. generico previsto dall’art. 402, che tutela esclusivamente la religione cattolica. È palese, allora, la violazione del generale principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. e del più specifico principio della eguale libertà delle confessioni religiose sancito dall’art. 8 c. 1° Cost.
Vi è poi l’ulteriore livello, costituito dal fatto che le figure di reato previste negli artt.da 403 a 405 sono previste anche in danno alle confessioni diverse dalla cattolica, ma in questi casi “a pena diminuita”. La Corte Costituzionale ha constatato che l’art. 404 “prevede una pena eccedente quella diminuita, comminata per il fatto previsto dall’art. 406”, e pertanto l’ha dichiarato incostituzionale per la parte eccedente.