I caratteri essenziali dell’ordinamento sono la politicità e la positività:
1) la prova della politicità può essere la sentenza 364/88 della corte costituzionale con la quale ha stabilito che l’ignoranza inevitabile della legge può scusare; si rende dunque essenziale come requisito di imputazione uno specifico rapporto tra soggetto e legge e, conseguentemente, tra soggetto e fatto, sicché da colpirsi solo la consapevole ribellione o trascuratezza nei confronti dell’ordinamento.
Tutto ciò ovviamente se per politica si intende non geometricamente “ la ragione di Stato” ma dialetticamente “ l’intelligenza della giusta misura, di ciò che conviene”.
2) della positività la prova sembra più elementare, essendo immediatamente individuabile nel determinare, nello stabilire, nel fissare in cui esso naturalmente consiste.
Ma proprio perché sulla positività la geometria legale ha fondato la propria concezione puramente volontaristica dell’ordinamento giuridico, infilandosi in un groviglio di contraddizioni, è necessario precisare l’autentico significato, percepibile avvertendo l’analogia esistente tra precetto e concetto: come col concetto si rappresenta una cosa fissandone i tratti essenziali, così col precetto si rappresenta un’azione fissandone i tratti qualificanti ed essenziali; come il concetto costituisce un principio regolatore della conoscenza umana, il precetto esercita la funzione di modello per l’azione umana.
Recuperare la coscienza della neutralità del diritto è oggi compito difficile ma irrinunciabile per il giurista che voglia onorare il suo nome.
L’estraneità ed anzi la contrapposizione tra natura e diritto, postulate dalle geometrie legali sulla base dell’assunto per il quale sarebbe separazione netta tra essere e dover essere, hanno radicato nel subconscio del moderno operatore giuridico un preconcetto difficile da estirpare. Sicché, quando questo si trova costretto dagli esiti totalitari e disumanizzanti del positivismo giuridico ad immaginare un diritto naturale, lo costruisce ad imitazione del diritto positivo.
Ebbene, con il riferimento esplicito e tassativo al principio di sussidiarietà, sono proprio le più recenti innovazioni legislative, quelle comunitarie, a prospettare un superamento di quel preconcetto paralizzante.
In altri termini, viene in tal modo prospettato come determinante nella qualificazione dell’ordinamento, non tanto il criterio della competenza quanto il criterio della funzionalità, cioè dell’idoneità degli strumenti al perseguimento degli obiettivi e dell’adeguatezza di questi alla natura.
La matrice storica del principio di sussidiarietà si può inveire nella Rerum Novarum di Leone XIII secondo cui “ non è giusto che il cittadino, che la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altri diritti”. La metafora dell’assorbire rappresenta efficacemente la concezione geometrica dell’ordinamento giuridico come sovrapposizione della volontà sovrana della collettività sulla volontà anarchica degli individui e quindi l’annullamento della persona.
Ecco perché si può dire che nella scoperta della sussidiarietà, quale principio generale del diritto comune europeo, il giurista ritrova la via per il riconoscimento critico della naturalezza del diritto.
La consapevolezza della natura interlocutoria del proprio operare, destinato ad innestarsi in un processo che si regge e si compie sulla base della capacità personale d’autonomia, ovvero sulla capacità di ciascuno di essere padrone di se, impedisce al giurista di accontentarsi di un ordinamento virtuale. E gli impedisce di lasciarsi ingabbiare nell’alternativa del controllo o comunicazione: sarebbe incongrua la pretesa di stabilire un qualsiasi controllo senza il preliminare riconoscimento della comune misura sulla base della quale mettere ordine e dunque senza preliminarmente comunicare.
Senza contare che non può esserci controllo senza autocontrollo il quale, come abbiamo visto, costituisce il motore dell’ordinamento giuridico.