Alla luce di ciò che è stato detto, sembrerebbe giustificarsi la tesi riduttiva per cui il dolo si esaurirebbe tutto nella volizione e nella rappresentazione degli elementi di fatto. L’intuizione però (che è la natura stessa dell’illecito penale e delle conseguenze giuridico-sociali che gli sono riconnesse) esige una partecipazione più intima del soggetto al fatto di reato: ciò resta valido. C’è poi da considerare che tutte le concezioni che abbiamo accennato hanno come base comune il procedimento attraverso cui si cerca di dare una base ed un inquadramento dogmatico alla coscienza del disvalore come requisito del dolo: ciò porta a ritenere che si ritenga che tale problema costituisca una questione interna dell’elemento soggettivo del reato da trattarsi indipendentemente dall’aspetto obiettivo di quest’ultimo.

In pratica non si può affermare che la rappresentazione di un certo dato faccia parte del contenuto del dolo, se prima non si dimostri: a) che tale dato è previsto nella fattispecie legale b) che esso si riferisce al “fatto” cioè quel complesso di elementi che si riflettono nella volontà colpevole.

Partendo dal primo punto, ci si chiede se sia giusto parlare di un disvalore presente nell’aspetto materiale del reato, avulso dalle sue componenti soggettive. L’indagine di prima ci precisa che il disvalore del fatto non è costituito da una qualifica discendente all’elemento obiettivo dell’illecito penale da una norma, sia quella incriminatrice o un’altra norma (giuridica o no) da questa richiamata. Ora in sede di enunciazione di massima, si tende a concepire la coscienza del disvalore del fatto come consapevolezza di una qualifica formale; ma quando si passa alle singole figure criminose, il principio formulato diventa lettera morta e in queste ipotesi si profila accanto a coscienza/volontà un 3° elemento cioè la consapevolezza del carattere lesivo della condotta verso l’interesse protetto della norma. Ciò si verifica quando una data fattispecie criminosa non è definita in maniera tale che ogni realizzazione di un fatto corrispondente allo schema normativo ponga in essere un pregiudizio dell’interesse tutelato. In pratica ci sono illeciti penali delineati dalla norma incriminatrice in maniera tale che può darsi un fatto che anche se conforme al modello di parte speciale non arrechi alcun pregiudizio alla situazione oggetto di tutela. Da ciò possono derivare 2 situazioni: il fatto rientra nella formula descrittiva della norma, ma appare non meritevole di esser assoggettato a pena perchè non realizza un’offesa rilevante per il diritto penale (cioè è “innocuo” ovvero il fatto risponde sia al requisito della conformità al tipo descrittivo che a quello della lesività ma il soggetto non si rende conto di ledere l’interesse salvaguardato dalla norma. A questo punto ci si chiede quale sia la rilevanza che spetta all’offesa all’interesse oggetto di tutela e alla relativa consapevolezza che il soggetto deve averne per agire dolosamente. in primo luogo bisognerà provare che il momento dell’offesa possiede sua autonoma rilevanza sul piano oggettivo del reato: se a questo risultato non si può arrivare, sarà insuperabile l’obiezione per cui, anche se la norma penale è sempre rivolta alla tutela di uno o più interessi, l’ordinamento opererebbe alla stregua di una presunzione assoluta per cui a ritenere realizzata l’offesa all’interesse protetto basterebbe il puro e semplice evento.

L’offesa all’interesse è presa in considerazione da una serie di categorie dogmatiche che finiscono ad esprimere contenuti molto diversi: esse sono l’antigiuridicità sostanziale contrapposta a quella formale (già visto nel precedente libro); l’offesa (o danno criminale) (comprende anche i mali non suscettibili di risarcimento) contrapposta al danno risarcibile (con questa contrapposizione si pone una domanda per cui viene data risposta esauriente anche da chi, delineata una certa nozione di danno criminale, ometta poi di prendere posizione sul ruolo che essa svolge: ratio della norma, la cui mancanza porta il venir meno del reato) (; l’evento giuridico contrapposto all’evento naturale. Con evento naturale si è già visto che si intende la modificazione del mondo esterno rilevante per il dir, ma questo concetto non può esser trascurato nella ricostruzione del dolo perchè l’atteggiamento dolo si studia anche verso gli accadimenti successivi della condotta da essa cagionati. Si è già però detto che identificare dolo ed evento porterebbe a dover riconoscere che la definizione di dolo nel nostro ordinamento ex 43 1° manchi di riferimento ai reati di pura condotta. C’è poi un secondo motivo interpretando il 43 che si oppone a intendere l’evento come risultato dell’azione od omissione, rilevante per il dir. Si parta dal fatto che i padri del C.P. si ispiravano alla concezione giuridica dell’evento, per la quale esso è lesione o messa in pericolo dell’interesse tutelato. In questo modo reati privi di evento non potevano configurare reati privi di evento. Da tutto ciò la definizione del 43 1° in maniera astratta risulterebbe aderente alla realtà del dolo come elemento polarizzato verso l’intero fatto di reato (non si potrà argomentare che il 43 si riferisce solo all’evento giuridico perchè la formula non differisce molto dal 40 che regola il rapporto di causalità considerando primariamente l’evento naturalistico). quindi non è solo la condotta a cagionare la lesione degli interessi tutelati, ma è tutto il fatto che risulta lesivo oppure no di tali interessi.

Ci sono dei casi in cui una figura di reato non realizzi in nessun suo elemento un danno o pericolo ovvero anche se l’evento materiale si presenta come risultato dannoso non è sempre esatto che esso sia l’elemento in cui l’offesa contenuto del reato si manifesta con evidenza maggiore. Esempio: automutilazione per sottrarsi al servizio militare (157 C.P. m. p. ). l’evento naturale di questo reato è la mutilazione del proprio corpo e quindi si lede l’interesse che fa capo allo stesso agente, ma l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice è un interesse di pertinenza statale. Da tutto ciò si deduce che il danno e il pericolo posti in essere e alcuni eventi naturalistici saranno al più puri momenti di fatto necessari come gli altri per formare la fattispecie criminosa, ma non tali da illuminare particolarmente sul perché l’ordinamento reputi illecito un certo comportamento. Ora che al 43 si accenni all’evento come risultato dell’azione od omissione o che al 40 l’evento sia qualificato dannoso o pericoloso, la realtà delle cose ci costringe a riconoscere che mentre un’interpretazione in chiave di elementi naturalistici (rapporto da effetto a causa con la condotta) renderebbe incongrua la definizione di dolo, non si può parlare sempre di dannosità/pericolosità come caratteristiche dell’evento ex 40. Ma il fatto che nel 40 si disciplini il rapporto di causalità ci impone di accogliere l’accezione naturalistica dell’evento, non perdendo però di vista il dato (quando leggiamo “conseguenza dell’azione od omissione”x cui prima di intervenire alla conclusione che nella legge si incontra una definizione insufficiente del dolo, è buona regola salvaguardarne il contenuto essenziale: Gallo quindi alla dottrina, preferisce la razionalità del sistema del codice.

Per Gallo invece sarebbe un’ingiustificata complicazione del sistema il rilievo che oggetto del dolo possono esser solo gli elementi costitutivi del reato, tra cui non ci sarebbe l’offesa all’interesse protetto.

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