Il catalogo dei diritti fondamentali inizia col primo fra tutti i diritti alla persona, il diritto alla vita. Abbiamo ricordato come un significato tecnico di diritto alla vita non sia proponibile a proposito del concepito. Il problema morale connesso alla liceità dell’interruzione della gravidanza non può essere spostato sul piano giuridico sotto forma di lesione del diritto alla vita. Il soggetto leso non esiste perché la titolarità dei diritti si acquista alla nascita. Seguendo l’esperienza della maggioranza dei paesi occidentali, anche in Italia nel 1978 è stata introdotta una legge regolativa dell’aborto. La legge 194/1978 disciplina i casi in cui può richiedersi l’interruzione volontaria della gravidanza.
Entro i primi 90 giorni la donna può ottenere il certificato di autorizzazione a praticare l’interruzione della gravidanza. Le condizioni per le quali l’aborto può essere richiesto sono descritte all’art.4. Si tratta di circostanza per le quali la prosecuzione della gravidanza comporterebbe un serio pericolo per l’integrità psichica o fisica della donna. L’ampio spettro di motivi ha prodotto ampio dibattito, nel quale sono confluite ragioni legate alla tutela dell’interesse del concepito e convenzioni religiose. Anche in Italia si è attuata una soluzione compromissoria della liceità dell’aborto fino al terzo mese di gravidanza. Tale soluzione non salva l’affermazione dei due principi clamorosamente in contrasto: il diritto di autodeterminazione della donna e il diritto alla vita sin dal suo inizio. L’idea che la vita umana sia sacra e inviolabile introduce il discorso intorno all’eutanasia. Anche il consenso alle cure mediche riveste importanza sotto il profilo della tutela della persona. In via generale è necessario sempre il consenso del paziente all’operazione chirurgica. Solo col ricorso allo stato di necessità il chirurgo può intervenire se il malato non è in grado di manifestare la propria volontà (art. 2045). Il rifiuto alle cure mediche si potrebbe configurare come atto di disposizione negativo. Si pensi al caso del rifiuto della trasfusione del sangue per motivi religiosi. La giurisprudenza in questo caso a riconosciuto legittimo l’intervento terapeutico se il malato era in pericolo di vita. il principio generale è stabilito dall’art. 32 Costituzione secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge.